FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" giugno 2024.
Articolo: "Il "lavoro povero"" di RITANNA ARMENI.
I dati sull'occupazione, diffusi dall'Istat e ampiamente divulgati dai mass media, sono finalmente positivi.
Dopo anni di flessione e di preoccupazione per la riduzione dei posti fissi e per l'aumento del precariato, finalmente una inversione di tendenza: in un anno 425 mila posti di lavoro in più e 180 mila precari in meno.
Sono dati veritieri? Sì lo sono. Giustificano l'ottimismo di chi vede in essi un miglioramento delle condizioni di tanti lavoratori? In parte , ma non abbastanza.
I dati, infatti, sono veri, ma vanno interpretati. La crescita dell'occupazione non coincide - questa è una novità - con l'uscita dalla povertà.
I dati sull'occupazione, diffusi dall'Istat e ampiamente divulgati dai mass media, sono finalmente positivi.
Dopo anni di flessione e di preoccupazione per la riduzione dei posti fissi e per l'aumento del precariato, finalmente una inversione di tendenza: in un anno 425 mila posti di lavoro in più e 180 mila precari in meno.
Sono dati veritieri? Sì lo sono. Giustificano l'ottimismo di chi vede in essi un miglioramento delle condizioni di tanti lavoratori? In parte , ma non abbastanza.
I dati, infatti, sono veri, ma vanno interpretati. La crescita dell'occupazione non coincide - questa è una novità - con l'uscita dalla povertà.
Per la prima volta siamo dinanzi a un fenomeno che molti analisti e politici tendono a sottovalutare o a rimuovere: il lavoro povero.
Fenomeno nuovo, diffuso ma scarsamente nominato. In che consiste? Il lavoro povero è quello la cui remunerazione non è sufficiente a garantire l'uscita dalla povertà. Non è sufficiente a mantenere chi lo percepisce e la sua famiglia. L'identikit del lavoratore povero è quello del maschio tra i 45 e i 50 anni con una famiglia composta da tre o quattro persone.
Veniamo da una storia economica e sociale in cui avere un'occupazione fissa significava uscire dal mondo della povertà ed entrare in quello della sicurezza e garanzie.
Naturalmente anche in quel mondo c'erano differenze. C'era il privilegio di chi guadagnava tanto e la durezza della vita di chi poteva contare solo su un salario da operaio. C'erano garanzie maggiori e minori.
Ma c'era una linea precisa che distingueva il lavoro dalla povertà. Chi superava quella linea, anche con sacrifici e ristrettezze, non era povero.
Ma c'era una linea precisa che distingueva il lavoro dalla povertà. Chi superava quella linea, anche con sacrifici e ristrettezze, non era povero.
Oggi invece lavoro e povertà si sono ricongiunti. Un posto di lavoro non basta a far uscire da una condizione di povertà. Anche se è fisso.
Il motivo è molto semplice e basta affiancare i dati sull'occupazione a quelli dell'inflazione per comprenderlo.
In questi anni i prezzi, a partire da quelli dell'energia, sono aumentati e di tanto. Le retribuzioni, invece, sono rimaste al palo. L'Italia è l'unico paese d'Europa nel quale sono scese.
Un solo salario non basta a garantire il necessario. Quando non si riesce a tenere insieme l'affitto con l'educazione dei figli o le cure mediche, allora il passaggio alla condizione di povertà è ineludibile.
La nascita del lavoro povero, che non appare dai dati sull'occupazione, diventa evidente se si guardano quelli della crescita.
L'economia è ferma e pare destinata a rimanere tale. Il prodotto interno lordo continua a mostrare numeri preoccupanti. I salari ridotti deprimono i consumi e questo non favorisce crescita e sviluppo.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: riduzione della spesa sociale e calo demografico. L'Italia dell'occupazione che aumenta e del lavoro che si impoverisce, l'Italia dei giovani laureati che preferiscono andare all'estero per avere salari migliori, è un Paese comunque in declino.
E questo non è una buona notizia.
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