martedì 30 marzo 2021

PAPA FRANCESCO. Intervista sullo sport. 5

 

C'è un grande business che ruota attorno a questo pianeta meraviglioso che è lo sport. Come riuscire a salvare la bellezza della pratica sportiva senza farle perdere l'anima?

"L'atleta è un mistero affascinante, un capolavoro di grazia, di passione. E' facilissimo però trasformarlo in un oggetto, una mercanzia che genera il profitto.
Nell'ultima enciclica, Fratelli Tutti, ho voluto precisare  che il mercato, da solo, non risolve tutto anche se la cultura di oggi sembra volerci far credere a tutti i costi a questo dogma di fede neoliberale. Questo accade quando il valore economico detta legge, nello sport come in tanti altri settori della nostra vita.
La ricchezza, il guadagno facile, rischiano di far addormentare la passione che ha trasformato un ragazzo qualunque in un fiore all'occhiello. Personalmente credo che un po' di "fame" in tasca sia il segreto per non sentirsi mai appagati, per tenere accesa quella passione che, da bambini, li ha affascinati.
E' triste vedere campioni ricchissimi ma svogliati, quasi dei burocrati del loro sport: facciamo di tutto perché sia salva la dimensione amatoriale dello sport. Abbiamo visto nei mesi scorsi come la pandemia abbia evidenziato che non tutto si risolva con la libertà di mercato.

Ha mai pensato di scrivere un'enciclica sullo sport?

"Apertamente no ma , per esempio, tanti elementi si possono ritrovare nell'enciclica Fratelli Tutti. Per esempio il capitolo quinto offre spunti per riflettere attorno all'imponente mondo economico che gira attorno allo sport ma suggerisce, anche, come lo sport possa aiutare o almeno possa dare il proprio contributo alla globalizzazione dei diritti.
Ma forse anche questa nostra conversazione può definirsi l'avvio di una enciclica sullo sport. Vedremo cosa il buon Dio suggerirà nel proseguo del pontificato! 
Una cosa, però,  possiamo già condividerla. Ogni quattro anni ci sono le Olimpiadi, con la loro Carta Olimpica. Proprio le Olimpiadi possono fungere da faro per i naviganti: la persona al centro, l'uomo teso al suo sviluppo, la difesa della dignità di qualunque persona. E la parte più bella: "Contribuire alla costruzione di un mondo migliore, senza guerre e tensioni, educando i giovani attraverso lo sport praticato senza discriminazioni di alcun genere, in uno spirito di amicizia e di lealtà". E' già stato scritto tutto: viviamolo!"

Il santo è il campione della fede. Santi, come campioni, non si nasce: lo si diventa. Qual è il suo segreto per competere nel campionato della santità?

"Restando nel linguaggio sportivo che lei continua a suggerirmi in questa conversazione, per me il segreto per desiderare e per vivere la santità è quello di mettersi in gioco.
Infatti che cosa fa un giocatore quando è convocato per una partita o un atleta prima di partecipare ad una gara? Si deve allenare, allenare e ancora allenare. Ad  ognuno Dio ha dato un campo, un pezzo di terra nel quale giocarsi la vita: senza allenamento, però, anche il più talentuoso rimane una schiappa (si dice così?). Ecco per me allenarsi - e anche un Papa si deve sempre tenere in allenamento! - è chiedere ogni giorno a Dio "Che cosa vuoi che faccia, che cosa vuoi della mia vita?" Domandare a Gesù, confrontarsi con Lui come con un allenatore. E se si fa uno scivolone, nessuna paura: a bordo campo c'è Lui che è pronto a rimetterci in piedi. Basta non aver paura di rialzarsi".

Michael Jordan, uno dei più grandi cestisti di tutti i tempi, disse che "se ci si arrende una volta, diventa un'abitudine. Mai arrendersi". Mi perdoni, Santità: come fa lei a non arrendersi mai?

"Prego. Ho bisogno di sapere che gioco in una squadra dove il Capitano ha il diritto di avere l'ultima parola: prego per sapere intercettare al meglio le parole che Lui mi suggerisce, per offrirle al popolo, che non è mai una semplice parola o una categoria sociologica. Popolo è anzi tutto una chiamata, un invito a uscire dall'isolamento e dall'interesse proprio per rovesciarsi nell'ampio letto di un fiume che, avanzando, dà vita al territorio che attraversa. E poi mi tengo i poveri vicino: quando viene la sera, penso a tutti i poveri che dormono attorno al Colonnato di Piazza San Pietro: la loro resistenza  è la mia ispirazione, la loro presenza è la mia protezione. Penso a loro e non mi sento mai solo: dentro quella carne fragile e ferita, Dio si nasconde, anzi si manifesta, per suggerirmi lo schema di gioco vincente. E mi fido di Lui: Lui non si arrenderà mai, nemmeno di fronte alla mia fragilità".

Questo è il primo numero de La Gazzetta del 2021. Quale è l'augurio di Papa Francesco per l'umanità in questo inizio d'anno?

"Il mio augurio è molto semplice, lo dico con le parole che hanno scritto su una maglietta che mi è stata regalata: "Meglio una sconfitta pulita che una vittoria sporca". Lo auguro a tutto il mondo, non solo a quello dello sport. E' la maniera più bella per giocarsi la vita a testa alta. Che Dio ci doni giorni santi. Pregate per me, per favore: perché non smetta di allenarmi con Dio!"

CORONAVIRUS. Basta pandemia!

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" febbraio 2021.
Articolo: "Stanchi della pandemia" di ROBERTA VILLA.

Dopo un anno in cui covid-19 ha monopolizzato il discorso pubblico e privato condizionando le nostre vite, una reazione di rifiuto è naturale. Attenzione che non ci si deve, però, far abbassare troppo presto le armi.
La pandemia è probabilmente l'evento di maggior impatto a livello globale dalla Seconda guerra mondiale. In meno di un anno ha già provocato nel mondo oltre cento milioni di casi documentati e due milioni di morti dirette, a cui vanno aggiunte le tante vittime per cause indirette, ancora difficili da calcolare, per esempio per le conseguenze delle misure di contenimento o per la difficoltà di accesso alle cure.
Anche una volta guariti, molti pazienti portano poi a lungo i segni della malattia: stanchezza, depressione, difficoltà respiratorie, disturbi neurologici.
La gravità della situazione è evidente, eppure cresce il numero delle persone che non la vuole vedere. Qualcuno parla di pandemic fatigue, stanchezza da pandemia, altri mettono in guardia dal rischio di "obnubilamento psichico". "Usiamo questa espressione quando a un'informazione non si associa alcuna reazione emotiva" spiega Paul Slovic, docente di psicologia all'Università dell'Oregon. Si verifica, cioè, quando, in qualche modo, diventiamo impermeabili alle emozioni che un fatto ci dovrebbe provocare.
A molti, forse alla maggior parte di noi, il bollettino dei nuovi casi, dei ricoveri in ospedale e in terapia intensiva, che ogni sera ci viene fornito, non suscita più lo sgomento di qualche mese fa. E' brutto dirlo, ma è come se fossimo abituati. Ci colpisce di più un incidente aereo in cui perdono la vita una cinquantina di persone, meno della metà di quelle che covid-19 si porta via ogni giorno in diverse regioni italiane. E questo perché l'evento è straordinario, mentre la pandemia, purtroppo, è entrata nella nostra quotidianità e ciò cambia la nostra percezione del rischio che essa comporta, come tutto quello che ci è familiare.
Il termine "obnubilamento psichico" - in inglese psychic numbing - è stato coniato da uno psicologo e psichiatra dell'Università di New York, Robert Jay Lifton, dopo aver intervistato diversi sopravvissuti alla bomba atomica su Hiroshima. In quel caso, chiudersi all'emozione era un modo per difendersi e poter tornare a vivere.
C'è però un punto di svolta in cui quello che è un naturale meccanismo di adattamento diventa preoccupante, o addirittura patologico. E', ad esempio, il caso in cui il distacco emotivo è sintomo di un disturbo da stress post-traumatico (PTSD).
Quando il pericolo persiste, come nel caso della pandemia, l'incapacità di partecipare emotivamente a quel che accade può poi sconfinare in una negazione della realtà che porta ad assumere comportamenti potenzialmente pericolosi per sé e per gli altri. Se ci accorgiamo che è così, occorre inserire la marcia della razionalità, riflettere sui dati obiettivi, continuando, nonostante la fatica, a cercare di proteggere se stessi e chi ci sta vicino.

mercoledì 24 marzo 2021

LIBRI. I gabbiani e la rondine - la via lucis di Papa Francesco

 

FONTE: Libro "I gabbiani e la rondine - la via lucis di Papa Francesco" di MARCO POZZA edito da Rizzoli.

Roma, 10 aprile 2020. Venerdì Santo. Nel pieno della pandemia, la Via Crucis celebrata dal Papa non si svolge in mezzo alla folla, nel Colosseo, ma nella piazza San Pietro deserta, sotto lo sguardo dell'antico crocefisso della chiesa di San Marcello al Corso.
Le parole che risuonano nella notte della  morte e del dolore provengono dalla parrocchia del carcere di Padova: a meditare sulle quattordici stazioni della Passione di Cristo è un'intera comunità di uomini e donne che abita e lavora in questo mondo ristretto.
"Mi sono commosso" ha scritto Papa Francesco. "Mi sono sentito molto partecipe di questa storia, mi sono sentito fratello di chi ha sbagliato e di chi accetta di mettersi accanto a loro per riprendere la risalita della scarpata".
In questo libro, partendo dalle meditazioni sulla Via Crucis raccolte e scritte insieme alla giornalista e volontaria Tatiana Mario, don Marco Pozza ha costruito un racconto sulla fede e la resurrezione dei viventi: la Via Crucis di Gesù diventa così una Via Lucis degli uomini, la cui sofferenza è stata riscattata da Cristo in persona.
"Mai celebrata una Via Crucis così" scrive l'autore. "Pareva davvero d'attraversare l'Odio desiderando l'Amore."

DON CAMILLO. Canto solitario

 



FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

CANTO SOLITARIO

Ognuno di noi custodisce  dentro di sé un vero e proprio tesoro fatto di pezzi unici e pregiati che sono: la sensibilità, i sentimenti, le emozioni, gli ideali, i progetti, i punti di vista....
Tutti pezzi unici perché ognuno di noi è unico e irripetibile; e tutti pezzi pregiati perché sono espressione di quella vita personale che è il bene più prezioso di ognuno.
Non sempre, però, siamo consapevoli di questo tesoro. Ci può capitare di considerarlo un insieme di banalità, di cose di poco conto che non interessano a nessuno. E così lasciamo perdere. Può capitare che consideriamo banalità il tesoro di chi sta vicino, ma non  ha titoli o fama che lo possano rendere interessante.  E così lasciamo perdere pure questo.
Quanto patrimonio sprecato! Anch'io, come tutti, ho il mio patrimonio. Non è certamente pari a quello della BCE, ma nel mio piccolo ho l'ambizione di metterlo a disposizione. Mi piacerebbe tanto ascoltare chi mi parla; parlare con chi mi ascolta sugli argomenti della vita e della Fede. Però sono rari i casi che mi capitano, e meno male che ce ne sono alcuni.
Il più delle volte ho la sensazione di essere considerato come uno che parla per il ruolo che occupa, in modo scontato, perché è il suo compito.
Essendo io prete, quello che dico è classificato come predica, come un tentativo di convertire chi mi si confida. "E' comprensibile - si dice - Fa il suo mestiere. E' giusto che sia così..." Per di più viene giudicato in base alla durata più che in base al contenuto.
Classificato in questo modo, mi sento svuotato; capisco che quello che dico fa poca presa sull'animo di chi mi interpella; o addirittura non fa presa affatto. 
E' bello quando una persona viene  a parlarmi, semplicemente per essere ascoltata e con la voglia di ascoltare a sua volta senza limiti di tempo......Ma è raro che succeda. Al sabato mi metto disponibile per le confessioni in chiesa, ma spesso resto disoccupato....
E così il mio scrigno, per quanto povero, resta chiuso. A me piacerebbe condividere quello che sono; quello che sento; quello che provo. Non parlo da prete perché è il mio ruolo, ma parlo da uomo che ha trovato nella missione da prete il modo per arricchirsi ulteriormente di Grazia di Dio e per sentirsi utile a chi vuol riflettere, capire e gioire.
Per superare la delusione di non sentirmi "sfruttato" penso che, se quello che ho dentro non viene condiviso, resta comunque dentro, e me lo posso godere io. Se una buona torta viene mangiata in compagnia, si crea un clima di festa coinvolgente. Se resto solo a mangiarla, rimane comunque sempre buona, anche se la festa si riduce ad un canto solitario.

CANTO SOLITARIO

Ho dentro di me ben nascosto
in uno scrigno di oro zecchino
un tesoro nel quale ho riposto
la gioia di svegliarmi al mattino.

Non temo che mi venga rubato;
non ha un valore commerciale;
per questo se lo porto al mercato
i più lo vedon banale.

Vorrei tanto poterlo donare
per rendere qualcuno contento;
sentirlo ogni giorno cantare
e affidare le sue note al vento.

Nessuno, però, mi ha chiesto
di aprire il mio scrigno dorato;
e allora solitario io resto
pensando che son fortunato.

E' strano veder trascurare
un patrimonio così prestigioso
sapendo che son molti a cercare
e a comprare pattume costoso.

Rimango a guardare perplesso
cercando di capire e spiegarmi
il perché di tanto insuccesso
e di questo rifiuto a parlarmi.

Sarà forse perché sono un prete
e si pensa  che sol per mestiere
io cerchi di attirar nella rete
più gente con canti  e preghiere.

Mi adatto così a gioire
da solo e senza complessi,
disponibile sempre ad offrire
il mio tesoro a chiunque interessi.

Certo, meglio sarebbe
condivider  la gioia tra tanti;
a tutti in cuor crescerebbe
la voglia di esplodere in canti.

                                      don Camillo




giovedì 18 marzo 2021

RES PUBLICA. Italia, paese per vecchi?

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" gennaio 2021.
Articolo: "Non è un Paese per vecchi" di RITANNA ARMENI.


Che cosa ha spinto la politica e i mass media in questi duri mesi di malattia e di morte a sottovalutare, se possibile ignorare, il numero esorbitante dei morti per covid? Se, nella prima ondata, la visione dei camion che portano via le bare è stata il simbolo terribile di un contagio indomabile, che cosa significa il silenzio di oggi? La risposta sta in un'altra domanda: chi sono i morti che si è cercato di far passare sotto silenzio? Sono soprattutto anziani, vecchi, uomini e donne, ormai fuori dalla vita attiva.  Molti abitavano nelle cosiddette case di riposo, molti erano già ricoverati negli ospedali. Il covid li ha colti fragili ed esposti e li ha colpiti senza pietà. Noi - lo stato, il governo, la politica - non siamo stati capaci di difenderli. Non solo. La pandemia ha fatto emergere la solitudine e la povertà, lo stato di abbandono in cui passa la vita la maggior parte di loro. Ce ne siamo vergognati - la politica se n'è vergognata - abbiamo rimosso e poi censurato.
Non è stato difficile. L'Italia, per dirla con il titolo di un celebre romanzo, "non è un Paese per vecchi". Sono anni che la politica ha uno sguardo assente, talvolta ostile verso una parte della popolazione che peraltro è sempre più numerosa. Basta pensare al recente passato: quando c'è stato da recuperare risorse ci si è rivolti sempre ai pensionati e ai loro redditi. Per altro già bassi. La politica della sanità, con l'indebolimento dell'assistenza  sul territorio, del medico che va a casa e conosce il paziente, è soprattutto loro che ha colpito. La carenza, in alcune regioni l'assenza, di un sistema di assistenza domiciliare li ha condannati alla solitudine.
Noncuranza, disattenzione, impreparazione a cui si è aggiunto qualcosa di più e di più grave. In tempi di emergenza, in cui può emergere la logica del "si salvi chi può", la disattenzione per i i più fragili è passata nei fatti. Non sono produttivi, non contribuiscono alla crescita della ricchezza, anzi, all'opposto, costano. Se muoiono liberano risorse che possono essere impiegate diversamente. Certo, nessuno ha fatto un discorso di questo tipo con chiarezza. Anzi, tutte le misure di lockdown sono state giustificate con l'affermazione di voler proteggere i più fragili, ma sono state contraddette dai fatti.  Sì, è proprio vero, e la pandemia l'ha confermato, l'Italia non è un Paese per vecchi. Ma questo non può rassicurare i giovani. E non solo per il banale motivo che alla vecchiaia tutti ci arriviamo (se siamo fortunati) ma perché la disattenzione per i più fragili indica un modello sociale, culturale e sentimentale che non colpisce solo gli anziani, ma chiunque si trovi in un momento di difficoltà. Allora la domanda diventa: una nazione che non è capace di pensare ai suoi nonni riuscirà a pensare adeguatamente ai suoi figli? Riuscirà a proteggere chi tra loro è più debole? Riuscirà a comprendere davvero come costruire il futuro di tanti? Un Paese che "non è per vecchi" può essere per i giovani? Il dubbio è forte.

GIOVANI E RAGAZZI. Davanti ai videogames

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" novembre 2020.
Articolo: "Mai soli davanti ai videogames" di DANIELE NOVARA.

Nella notte tra lunedì 28 e martedì 29 settembre , a Napoli, poco prima di lanciarsi nel vuoto dal decimo piano di un palazzo signorile, un ragazzino di 11 anni invia questo messaggio al cellulare della mamma: "Mamma ti amo, ho un uomo incappucciato davanti, non ho tempo".
Si torna così a parlare di macabri giochi che si svolgerebbero sul web o attraverso i social. I due più noti sono il Blue Whale e Jonathan Galindo. In entrambi i casi, il "gioco"   è semplice: una serie di sfide e di prove di coraggio che possono condurre i partecipanti all'autolesionismo, se non addirittura al suicidio.
Alcune testate giornalistiche, sia nazionali che internazionali, li hanno analizzati e ne hanno messo in dubbio la veridicità, al punto di parlare di fake news o bufale, per dirla in italiano. Io stesso sono scettico sulla reale esistenza di questi fenomeni.
Punterei piuttosto il dito contro l'eccessiva presenza dei bambini davanti ai videogiochi e sul loro utilizzo smodato.
Il tragico fatto di Napoli lo dimostra. Il cervello di un bambino di 11 anni viene completamente assorbito dal sistema dei videogiochi venendo scollato dalla vita reale.
A fronte di ricerche, o pseudo tali, che sostengono gli effetti benefici dei videogiochi sui giocatori - ad esempio che possano prendere decisioni più velocemente oppure avere prestazioni migliori nei processi di attenzione selettiva o focalizzata -, tante altre ricerche dimostrano che, dopo due ore davanti ad uno schermo, il cervello non riesce più a sottrarsi al consumo stesso e perde la connessione con ciò che è reale. Si arriva al punto di non ritorno.
Purtroppo, durante il periodo del confinamento, la situazione è peggiorata: i ritmi circadiani si sono completamente alterati, portando molti bambini e ragazzi a scambiare la notte per il giorno. Ed è proprio in questo scombussolamento che la pericolosità educativa dei videogiochi è stata sottovalutata. Anche l'età di utilizzo si sta abbassando, ma questo è un aspetto che pare preoccupare solo noi tecnici dell'educazione.
Una scena comune è quella del bambino di 3-4-5 anni al ristorante che maneggia un telefonino o un tablet, "perché così sta tranquillo, non disturba e noi mangiamo in pace" si difendono i genitori. Molti di questi, infatti, non si pongono il problema, mentre ce ne sono altri che per fortuna sono estremamente allarmati dall'uso non corretto delle tecnologie e cercano di capire come sostenere ed educare i propri figli in questa direzione.
Occorre mettersi dal punto di vista delle esigenze formative e delle competenze psicoevolutive di bambini, preadolescenti e ragazzi, chiedendosi quali siano i possibili rischi, i danni e le difficoltà di crescita o sviluppo che la tecnologia comporta e come prevederli o evitarli.
I bambini hanno il diritto a essere educati e gli adulti devono accorgersi della loro presenza e soprattutto dei loro bisogni. Non abbandoniamoli per ore davanti ai videogames. Hanno bisogno di incontrarsi e vivere insieme in carne e ossa in situazioni di realtà concreta, piuttosto che in contesti sempre più virtuali e sempre più pericolosi.

domenica 14 marzo 2021

PAPA FRANCESCO. Intervista sullo sport. 4

 

L'allenamento è la via del perfezionismo. E' la base di partenza per superare se stessi.

"Nessun campione si costruisce in laboratorio. A volte è accaduto, e non possiamo essere certi che non succederà ancora, anche se speriamo di no!
Ma il tempo smaschera i talenti originali da quelli costruiti: un campione nasce e si rinforza con l'allenamento. Il talento è un dono ricevuto ma questo non basta: tu ci devi lavorare sopra. Allenarsi, allora, sarà prendersi cura del talento, cercare di farlo maturare al massimo delle sue possibilità.
Mi vengono in mente coloro che corrono i 100 metri alle Olimpiadi: per quei pochissimi secondi, anni e anni di allenamento, senza le luci accese.
Ogni tanto leggo di qualche grande campione che è il primo ad arrivare all'allenamento e l'ultimo ad andarsene: è la testimonianza che la forza di volontà è più forte dell'abilità.
Qui lo sport viaggia di pari passo con la vita: la bellezza, qualunque sia la sua declinazione, è sempre il frutto di una fiammella da tenere accesa giorno dopo giorno".

C'è un proverbio arabo che dice: "Non arrenderti. Rischieresti di farlo un'ora prima del miracolo". Proverbio che fede e sport condividono assieme.

"La tua resa è il sogno del tuo avversario: arrenderti è lasciargli la vittoria. E' sempre un rischio: "E se avessi resistito un attimo in più?" Continuerai a dirti per chissà quante volte vedendo com'è andata a finire. Poi è anche vero che ci sono giorni in cui è meglio continuare a lottare, altri in cui è più saggio lasciare perdere. La vita assomiglia a una guerra: si può perdere una battaglia, ma la guerra quella no! Un uomo non muore quando è sconfitto: muore quando si arrende, quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacolare di che cosa voglia dire non arrendersi. Nemmeno di fronte all'evidenza  dell'indifferenza: continuano a combattere per difendere la loro vita".

Il motto dell'Olimpiade è "Citius, Altius, Fortius". Vale anche per le nostre vite di tutti i giorni?

"Il motto è bellissimo: "Più veloce! Più in alto! Più forte!" Lo attribuiscono al barone Pierre De Coubertin, ma è stato ideato da un predicatore domenicano, Henri Didon. Assieme ai cinque cerchi e alla fiamma olimpica, è uno dei simboli dei Giochi. Non è un invito alla supremazia di una squadra sull'altra, tanto meno una sorta di incitazione al nazionalismo. E' un'esortazione per gli atleti, perché tendano a lavorare su se stessi, superando in maniera onesta, i loro limiti per costruire qualcosa di grande, senza lasciarsi bloccare da essi. E' divenuta una filosofia di vita: l'invito a non accettare che nessuno firmi la vita per noi".

Le prossime Olimpiadi si svolgeranno in Giappone, a Tokyo. Una delle massime giapponesi può essere tradotta così: "Cadi sette volte, rialzati otto". Lei ha visitato il Giappone: che ricordo porta con sé?

"Per due volte ho visitato il Giappone. In questi miei due viaggi ho incontrato una terra meravigliosa, ricca di tradizioni, di fede, di memoria. Alcuni anni prima di intraprendere il secondo viaggio in Giappone, avevo visto una fotografia che mi aveva colpito molto: quella di un bimbo che sta portando in spalla il fratellino morto al crematorio (la foto è del fotografo americano Joe O'Donnell. Il Papa ha incontrato il figlio nel suo secondo viaggio, ndr). L'ho fatta stampare e ho fatto scrivere sopra una frase: "Il frutto della guerra". In quei mesi, alle persone che incontravo, consegnavo loro la fotografia per non disperdere la memoria dei grandi fallimenti dell'umanità.
Quando, nel mio secondo viaggio, mi sono recato, come pellegrino di pace, a Nagasaki e Hiroshima, ho sostato in silenzio di fronte a quella pagina di storia: dei sogni di tantissimi è rimasta solo ombra e silenzio. Gente diversissima tra loro, unita da un tragico destino. Ho visto, però, anche la speranza in quell'istante: negli occhi di coloro che, sopravvissuti a quella barbarie, hanno trovato il coraggio di continuare a vivere. Nonostante tutto. Con tutto il cuore auguro che le prossime Olimpiadi trovino l'ispirazione in quegli sguardi che non si sono mai arresi".

Delle Olimpiadi sono parte integrante le Paralimpiadi, forse una delle forme più alte di eguaglianza, dignità, rispetto. Lei, mesi fa, attraverso le pagine del nostro giornale ha rivolto un pensiero a Alex  Zanardi. E' parso chiarissimo il suo intento: parlare a lui per parlare a tutto quell'immenso popolo che si ritrova in quella storia personale.

"Quando vedo di che cosa sono capaci certi atleti, che portano impressa nel loro fisico qualche disabilità, rimango sbalordito dalla forza della vita. Dello sport mi piace l'idea di inclusione, quei cinque cerchi che si inanellano tra loro finendo per sovrapporsi: è un'immagine splendida di come potrebbe essere il mondo. Il movimento paraolimpico è preziosissimo: non solo per includere tutti, ma anche perché è l'occasione per raccontare e dare diritto di cittadinanza nei media a storie di uomini e donne che hanno fatto della disabilità la loro arma di riscatto. Quando vedo o leggo di qualche loro impresa, penso che il limite non sia dentro di loro ma soltanto negli occhi di chi li guarda. Sono storie che fanno nascere storie, quando tutti pensano che non ci sia più nessuna storia da raccontare".

Lei è un grande appassionato di calcio: da piccolo tifava per il San Lorenzo. Lo sport, però, non è solo calcio.

"Sappiamo che in ogni angolo del mondo, anche in quello più nascosto e più povero, basta una palla e tutto comincia a popolarsi e a sorridere. Forse per questo il calcio fa un po' la parte del leone. Un po' come accade a casa tra fratelli: ce n'è sempre uno che pensa di valere più degli altri! Ma certo il mondo dello sport è una vera e propria costellazione con tante stelle. Io ho giocato anche a basket e mi sta molto simpatico, ad esempio, il rugby: pur essendo uno sport da duri, non è mai violento. La lealtà e il rispetto che ci sono in questo sport spesso vengono presi come modello di comportamento. Penso al "terzo tempo" dopo la partita: tutti i giocatori delle due squadre si riuniscono anche solo per un  saluto, una stretta di mano. E' così che dovrebbe essere: dare l'anima quando si gioca ma, terminata la gara, avere il coraggio di stringere la mano all'avversario. Non è una guerra tra nemici, solo un'occasione di competizione tra avversari nel gioco. Quelli che vengono considerati sport minori, certe volte, potrebbero fare delle "lezioni di ripetizione" al signor-calcio".

                                        continua
                                                                                 

venerdì 12 marzo 2021

DON CAMILLO. Il prete poeta

 



FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

Ho partecipato nei mesi scorsi ad un concorso internazionale di poesia organizzato dalla casa editrice Aletti di Roma. Sono stato riconosciuto tra i finalisti, ma non ho vinto.
La casa editrice, però, mi ha offerto la possibilità di pubblicare a condizione di favore una raccolta di mie poesie, e si è impegnata a pubblicizzarle su tutti i suoi canali social e giornalistici.
La stampa del libro è in dirittura di arrivo con il prezzo di copertina di euro 12.00. Io ho pensato di mettere a disposizione le 140 copie che la casa editrice mi ha riconosciuto, di chi desidera acquistarne una al prezzo di copertina. Tutto il ricavato sarà devoluto alla Parrocchia per far fronte alle spese che stiamo facendo per gli spazi gioco dell'Oratorio. Anche questo è un modo per contribuire insieme: io coprendo le spese di stampa e voi acquistando il libro.
Il libro sarà messo in vendita anche nelle librerie. Però, se lo prenotate da me il vantaggio sarà tutto per la Parrocchia.
Raggiunta la vendita di 430 copie, la Aletti editorie, mi offrirà un nuovo contratto di edizione questa volta senza costi (potrebbe essere una nuova  opportunità).
Raggiunto il limite di 500 copie vendute, mi saranno riconosciuti i diritti di autore che pure saranno devoluti alla Parrocchia.
Cerco di fare tutto il mio possibile. Per l'impossibile mi devo ancora organizzare, ma con l'aiuto vostro amplificato dalla Provvidenza, ce la faremo.
...E se muoio in concetto di santità...può essere pure che diventi famoso. In questo caso il libro acquisterà un valore 100...1000...10.000...volte tanto. (Pubblicità & Progresso)

                                       don Camillo

domenica 7 marzo 2021

SCUOLA. I nostri ragazzi e gli altri.

Ripubblico questo post del 11/08/2014, pensando alle mie adorate nipotine, che stanno subendo, insieme ad altri milioni di ragazzini e ragazzine, questo incredibile blackout scolastico.


I nostri ragazzini, ben vestiti, delle elementari arrivano a scuola in auto con la mamma o con il piedibus, sempre in sicurezza, cioè guardati a vista dagli adulti.
Mentre i ragazzi delle medie salgono sul pullman che li porta a Trescore B.

Su "la Repubblica" del 06/08/14 c'è l'articolo "I bimbi indiani che sfidano i coccodrilli", firmato da Raimondo Bultrini, che descrive altri ragazzi che devono recarsi a scuola in condizioni ben più difficili, direi proibitive.
Così si legge nell'articolo:
"Per andare e tornare da scuola ogni mattina e sera, 125 bambini indiani di sedici villaggi delle etnie tribali del distretto Chhota Udepur del Gujarat, attraversano a nuoto un fiume largo 600 metri, l'Hiran, confluente del Narmada che in questa stagione umida  scorre impetuoso con tutti i pericoli del caso, non esclusi i coccodrilli.........
Infatti, anche se passati incolumi sull'altra sponda, li aspettano ancora altri 5 chilometri prima di raggiungere le classi..........
A turno i genitori accompagnano i figli, li raggruppano sulla sponda e un adulto nuota con loro mentre sull'altro lato  qualcuno tiene d'occhio l'acqua per vedere se arriva un alligatore, un grosso ramo o un tronco d'albero. Chi non sa restare a galla, si aggrappa a una specie di otre d'ottone chiamato gohri, buono anche per tenerci dentro all'asciutto i sandali, i libri, la merenda, o un abito di ricambio per chi ce l'ha. Spesso gli scolari vengono infatti da famiglie talmente povere da potersi permettere solo un'uniforme scolastica, e specialmente le bambine non si sognerebbero nemmeno di spogliarsi per entrare in acqua. "Durante l'estate - racconta Geeta, che frequenta una classe media - le nostre churidaar-kurta si asciugano lungo il tragitto verso la scuola, ma in inverno e coi monsoni, rimaniamo zuppe per tutto il giorno".
ALTRI CASI RIPORTATI NELL'ARTICOLO.
SENTIERO CINESE
Per andare a scuola a Banpo, nello Shengji, i bambini devono fare un sentiero senza protezioni scavato 40 anni fa nel fianco della montagna.
FRA GLI ELEFANTI
In Kenya molti scolari traversano la savana rischiando le cariche degli elefanti.
SUL VUOTO
A Galle, in Sri Lanka, le studentesse devono passare per l'antico e diroccato forte olandese rischiando la vita in bilico su un asse.



DON CAMILLO. 8 marzo. omaggio alla donna

 



FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

FANTASIA DELLE STAGIONI

Delicato profumo di pesco
fiorito nel primo tepore
incantato a guardarti io resto
avvolto da un caldo stupore.

Campo di grano dorato
espandi del pane fragranza;
l'ondeggiare di spighe ti ha dato
nel cuore e nel tratto eleganza.

Bosco di mille colori
intenso profumo di terra
che parla di gusti e sapori
estranei al chiuso di serra.

Manto di candida neve
custode d'antica purezza
trasformi ovattata e pur lieve
di rovi e di pietre l'asprezza.

Ogni stagione di vita
scopre in te la colonna;
mai si sente tradita
dal tuo sentir che sei Donna.

                                            don Camillo




mercoledì 3 marzo 2021

DON CAMILLO. C'era una volta la raggera



FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

C'ERA UNA VOLTA LA RAGGERA

C'era una volta sul vecchio solaio della chiesa una raggera da tempo in disuso.
Era ormai ridotta a pezzi coperta a malapena da vecchi stracci tanto laceri da non essere più in grado di svolgere il loro compito di protezione. La polvere era tanta e tale d'aver nascosto ogni traccia di interesse in quel sfasciume di legni che sembravano più adatti alla stufa che al salvataggio.
Smosso dalla curiosità presi in mano uno di quei pezzi e, con la manica della tuta, lo ripulii alla bell'e meglio dalla polvere: era un pezzo di legno scolpito, una foglia d'accanto dorata. La sua eleganza e la lucentezza del suo colore che fino a quel momento era stata nascosta dalla polvere, mi affascinò.
Così decisi di recuperare tutti quei pezzi. Ce n'erano di tante dimensioni. Sia pure malmessa, quella raggera era completa. Si trattava di un'opera antica, forse del '700, che rappresentava una storia ricca di significato e di Fede. Decisi così che dovevo recuperarla e riportarla al suo antico splendore.
In paese c'erano persone appassionate di cose antiche. Le contattai e parlai a loro del progetto. Mi risposero con entusiamo: avrebbero preso in  carico il restauro gratuitamente.
Fu così che in pochi mesi, grazie al lavoro esperto e appassionato di quei volontari, avvenne il miracolo: la raggera recuperò tutta la sua bellezza ed eleganza originaria, pronta ad essere montata sull'altare maggiore per fare da corona al tabernacolo con le sue cento candele per rappresentare tutti i santi e i defunti che fanno parte dell'assemblea liturgica ogni volta che si celebra l'Eucarestia.
Quella raggera veniva montata 2 volte l'anno: in occasione delle quarant'ore e in occasione del Triduo dei Defunti. E fu così per vari anni. Ogni volta che si celebrava con la raggera esposta, c'erano volontari che accendevano una ad una le cento candele che ardevano con fiamma viva come è viva la presenza dei Santi e dei morti nell'assemblea quando si celebra la Messa.
Un lavoro impegnativo, che richiedeva tempo, ma rendeva bene il messaggio che voleva trasmettere. Poi ad un tratto è prevalsa la comodità. Ci vuole troppo tempo per accendere tutte le candele; siamo sempre quelli a prenderci l'impegno... Perché non mettiamo le lampadine? In un attimo è tutta accesa, e chi guarda da lontano neanche si accorge che sono la padine....
Certo, sembra tutto come prima, ma è cambiato lo spirito. Anzi è scomparso. E questo cambia tutto: si salva il guscio, ma è scomparsa l'anima, tutto ciò che dava senso, valore e perfino bellezza a quel guscio. E' scomparsa la vita che alimentava fantasie e sogni; è rimasto il cadavere che resta un corpo da "smaltire".

ARTE VIOLATA

C'era una volta un'opera d'arte
creata dal cuore e da mani operose;
nelle feste solenni la sua era parte
di grande risalto, tra le più decorose.

Con cura e passione era allestita
per dare risalto alla sua eleganza;
con mille candele veniva vestita,
ognuna era accesa con tenace costanza.

Si trattava di una vera nobile impresa
accessibile solo a gente vogliosa:
ogni candela doveva essere accesa
per arder di fiamma viva e gioiosa.

Ogni fiammella fungeva da segno
di un caro defunto che attorno all'altare
insieme con noi realizzava quel Regno
che grazie allo Spirito c'invoglia a cantare.

Poi ad un tratto è mancata la voglia;
ha prevalso la Sirena che invita a dormire.
Come si stacca dal ramo la foglia
il banale ha costretto l'incanto a finire.

Ora tutto si accende in un battito d'ali.
Un'arida luce al posto del fuoco.
Lampade fredde fisse e uguali.
Del fascino antico è rimasto assai poco.

                                              don Camillo



 

RIFLESSIONI. La sofferenza

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" gennaio 2021.
Articolo: "Come vivere la sofferenza?" di LUCETTA SCARAFFIA.

No, non è solo un problema di mascherine messe male, di assembramenti, di posti letto che mancano: il problema vero è che siamo circondati dalla sofferenza. Quella dei malati negli ospedali, nella solitudine delle case dove non entrano più nemmeno i medici, dei malati di altre malattie che non vengono più curati. Ma anche la sofferenza della solitudine dei nonni che non vedono i nipoti, dei bambini e dei ragazzi che incontrano troppe difficoltà per giocare con gli amici, per fare apprendistato di relazioni umane, innamorarsi e soffrire per amore, competere con gli altri in uno sport... Ed è aumentata la sofferenza di coloro che già soffrivano, come i migranti: a tutti gli altri pericoli si è aggiunto quello del contagio e della eventuale malattia senza protezioni.
Siamo stati svegliati bruscamente, neppure un anno fa, da questa ondata di sofferenza. Non che prima la sofferenza non ci fosse, ma era tenuta ai margini, e si faceva finta che fossimo sul punto di vincere ogni malattia, ogni dolore, grazie alla scienza.
Vivevamo in un mondo in cui ci facevano pensare di essere liberi di realizzare ogni desiderio, di andare dove volevamo a prezzi ragionevoli, di vestirci sempre di nuovo, anche se sempre più spesso di "stracci" cinesi. 
Soprattutto pensare  che potessimo non invecchiare mai, continuare fino a tardissima età a divertirci e a provare piacere, l'unico vero obiettivo che la società ci proponeva come apprezzabile, piacere che si traduceva, in pratica, nel consumare sempre di più.
Adesso che non possiamo più viaggiare, che non ha senso comprare vestiti se dobbiamo stare in casa, la sofferenza ci invade senza difese. Siamo di nuovo di fronte al problema che ha sempre angosciato l'umanità: perché c'è la sofferenza? Perchè tante persone devono soffrire  più di altre? Che cosa possiamo fare per affrontarla?
Siamo messi a nudo di fronte a una realtà che non volevamo vedere: la scienza non basta per sconfiggere il dolore, la realizzazione dei desideri non ci porta la felicità. E, soprattutto, la condizione umana non è all'interno di un processo di continuo miglioramento.
Pensare alla sofferenza, a come spiegarla, a come viverla, a come condividerla, è il tema al cuore di ogni religione, e in particolare del cristianesimo che si fonda sulla passione di Cristo, cioè  su una sofferenza offerta per noi.
Ma sembra che l'abbiamo totalmente dimenticato: parlare di sofferenza, come del resto parlare di morte, è passato di moda anche negli ambienti clericali. Che preferiscono riempirsi la bocca di termini "in positivo", come amore, condivisione, fratellanza. Atteggiamenti necessari, ma che per essere autentici devono affrontare la questione di fondo: come vivere la sofferenza? Affrontare questo problema vuol dire mettere in discussione la concezione ampiamente diffusa oggi che la vita valga la pena di essere vissuta solo se fonte di piacere.
Questo vuol dire domandarsi il senso della vita, questione che da troppo tempo la società aveva rinunciato a porsi. Dobbiamo tornare a riflettere sullo scandalo delle beatitudini evangeliche, che rovescia il mondo, soprattutto il nostro, attestando che si può trovare senso anche nell'assurdo del dolore, nell'invivibile della persecuzione, della violenza subita, di situazioni di dolore alle quali non sappiamo porre rimedio. Le beatitudini diventano rivelazioni della vita che ci è possibile se troviamo radici nell'umanità di Gesù.
E' questo il cambiamento profondo, che sta agendo nel nostro mondo, che ci sta portando verso un mondo nuovo, speriamo migliore. Sta a noi comprenderlo e indirizzarlo.