martedì 29 giugno 2021

MISSIONI. Disuguaglianze nella pandemia

 



FONTE: "MISSIONARI SAVERIANI" maggio 2021.
Articolo: "Disuguaglianze e fraternità" di p. GIANNI BRENTEGANI, sx.

In questi mesi, si parla sempre più delle disuguaglianze evidenziate dalla pandemia.
Da più di un anno, ormai, siamo preda di quel virus che porta la corona e che ha amplificato le disparità. In tempi normali, sarebbero state mimetizzate dalle complessità dei meccanismi economici, oppure nascoste nei meandri delle istituzioni delle nostre società. Ora, però, si mostrano alla luce del giorno senza vergogna, persino con il carattere dell'ingiustizia la più spudorata.

E' il caso dello "schiaffo ai paesi poveri" sulla questione dei brevetti sui vaccini, come scrive Karina Moual sulla Stampa del 17 marzo 2021. Le nazioni che fanno parte dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wtc) hanno proclamato un verdetto che sancisce la divisione mondiale tra stati ricchi e stati poveri. Paesi come Usa, Gran Bretagna, Unione Europea con i suoi 27 membri compresa l'Italia, hanno bloccato l'iniziativa di India, Sudafrica e altri novanta paesi "poveri". Avevano chiesto di rinunciare, almeno momentaneamente, alle regole sull'accordo commerciale delle proprietà intellettuali, quelle sui famosi brevetti, in  modo da produrre loro stessi il vaccino contro il Covid-19. Nei giorni precedenti la firma dell'accordo, 67organizzazioni avevano scritto una lettera aperta al premier Draghi, ai presidenti delle due camere chiedendo di sostenere la sospensione dei brevetti chiesti da India e Sudafrica.

Questi brevetti, infatti, impediscono la produzione dei vaccini in loco e quindi un'immunizzazione più veloce e un accesso sicuro per i più bisognosi. Certo, l'Europa non avrebbe potuto fare molto nei confronti dei Bigs dei farmaci, visto anche la debolezza mostrata nel mancato rispetto dei contratti. Ma, almeno, avrebbe potuto dare forza a quella richiesta di giustizia e mostrare la sua solidarietà. E' un'occasione mancata per stare dalla parte dei poveri e, magari, prevenire il sorgere di varianti che renderebbero inefficace l'attuale vaccinazione.
Papa Francesco stesso si è più volte espresso in favore dell'accesso ai vaccini per tutti e ha invitato i responsabili degli stati più ricchi a "globalizzare la cura" alla pandemia.

Molte organizzaioni si sono espresse nello stesso senso (Amnesty International, Croce Rossa internazionale, Oxfan, Pocsiv, Caritas Internationalis, l'Oms, Emergency, MSF), chiedendo un approccio globale e giusto nella direzione di una maggiore solidarietà. L'accaparramento dei vaccini sta mostrando, invece, una logica nazionalistica egoista che rifiuta la solidarietà come valore di riferimento. 
C'è poi il costo che differisce da nazione a nazione: più sei povero e più lo paghi o più sei povero e più aspetti. "Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l'abbiamo trasformata in un cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici.  E' pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull'appropriazione di beni da parte di alcuni. E' anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi" (FT 116).

Avere la solidarietà nel cuore, nella mente e nella volontà significa dare corpo a uno stile di vita che mostra la consapevolezza di far parte di una stessa famiglia umana. Anche su questo punto papa Francesco insiste molto: "Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana" (LS 52). Coltivare la coscienza di un'origine comune, di una mutua appartenenza e di un futuro condiviso da tutti costituisce allora una grande sfida culturale, spirituale e educativa (cfr. LS 202). Ecco dunque un compito per i nostri lettori: chi ha uno spirito missionario sente la necessità di respirare con la famiglia umana nel desiderio che diminuiscano le disuguaglianze e aumenti la fraternità.




lunedì 28 giugno 2021

VIAGGI. Il Cammino di Santiago de Compostela

 


FONTE: "il venerdì di Repubblica" del 04/06/21.
Articolo: "La cosa più difficile è partire" di PIETRO VERONESE.

Ci sono quelli che non hanno fatto il Cammino di Santiago, e ci sono quelli che l'hanno fatto. Questi ultimi sanno di far parte di una grande confraternita mondiale tra i cui membri ci sarà sempre un senso di sorridente condivisione, di passato comune da rievocare con rinnovato piacere. Quanto ai primi, salvo eccezioni, immaginano - fosse solo con un passeggero desiderio, o con un augurio fatto a se stessi, o con un progetto cui manca solo la data - di passare un giorno nell'altro gruppo e poter dire: l'ho fatto.
Camminare è di gran voga. E' un gesto liberatorio, una silenziosa rivolta contro l'obbligo di stare al chiuso  imposto dalla pandemia. Un ritorno alla semplicità, una dichiarazione di rispetto per il nostro pianeta, la manifestazione di una voglia di ricominciare in modo giusto. E' la cosa più sostenibile che c'è.
Mettersi in cammino oggi per Santiago è di sicuro tutto questo; ma è anche qualcos'altro, che nessun sentiero di campagna, o alta via alpina, o avventuroso trekking può pretendere di offrire. E' un viaggio dentro se stessi, un incamminarsi nel mondo sconosciuto della propria resistenza, motivazione, aspirazione vera. Un cammino che cambia chi lo fa: la persona che esce titubante dall'abitato di Saint-Jean-Pied-de-Port (nella regione francese della Nuova Aquitania) in un fresco mattino della buona stagione, e quella che un mese dopo, sotto il sole meridiano, arriva spavalda e commossa sulla vuota piazza del santo a Compostela, non sono la stessa.

SPIRITUALITA', ANCHE SENZA FEDE
La convinzione religiosa  non c'entra nulla: può esserci o non esserci; il pellegrino può credere o non credere che quella sia davvero la tomba dell'apostolo Giacomo. Il Cammino con la C maiuscola è per tutti, purché gli si riconosca una dimensione di ricerca e non si dimentichi di infilare nello zaino qualche punto interrogativo. La "credenziale", che quasi tutti coloro che lo affrontano si fanno dare prima di partire, non chiede di dichiarare una fede, bensì una motivazione "spirituale". E' questa che definisce il pellegrino. Certo è ammesso chiunque, anche chi veda nella distanza  di 780 chilometri che separa Saint-Jean da Santiago un'impresa semplicemente sportiva: ma prima o poi si sentirà fuori posto. O cambierà punto di vista.

LA VIA MIGLIORE
I Cammini che portano a Santiago sono molti  e diversi per sviluppo, orientamento, tracciato. Qui parliamo del Cammino Francese, il più battuto sia oggi che nei secoli lontani del grande fervore religioso medioevale. Il Cammino per eccellenza verrebbe da chiamarlo, consigliandolo a chi per la prima volta affronti il percorso di Santiago. Non solo perché è di sicuro il più ricco di punti di appoggio, ostelli, servizi al pellegrino, quello dove più sviluppata è la cultura e la piccola imprenditoria dell'accoglienza. Non solo perché è un fantastico tracciato nella storia, che attraversa città straordinarie come Pamplona, Burgos, Leòn e costeggia struggenti pieve romatiche e cupi castelli dei Templari, cui era affidata la sicurezza e la salute dei pellegrini. Non solo perché, camminando, ci si sente accodati a quell'interminabile fiumana di individui che, a partire da mille anni fa, fatto testamento, indossato il saio e gli zoccoli, si è riversata da ogni punto d'Europa verso Santiago in cerca d'espiazione, rinascita e promesse di vita eterna. Il fatto è che, essendo il più frequentato, il Cammino Francese è quello dove è più facile imbattersi in altri viandanti e scoprire così che la Via di San Giacomo è fatta - oltre che di ciottoli, saluti, salite, onnipresenti frecce gialle che rendono impossibile sbagliare direzione - anche di parole. Di incontri.

DIALOGHI IN "EUROPESE"
Non è una scelta, e nemmeno un caso: in quell'andare di giorni gli animi si aprono, la curiosità per gli altri si espande, le lingue si sciolgono, forse invogliate dalla consapevolezza di avere tutti una meta comune. Vi intratterrete, in una lingua che non sapevate di conoscere, uno strano "europese" fatto di inglese, spagnolo e il resto a piacere, con persone che non avreste mai immaginato: albergatori disoccupati, soldatesse Nato tra una missione e l'altra in zone di guerra, pensionati della West Coast americana, professoresse di matematica coreane, inventori di software in cerca di nuove motivazioni, ottantenni austriaci  che festeggiano in cammino il compleanno e affittacamere di Barcellona che vi chiederanno se secondo voi non sia il caso che cambino vita.
Tutti esempi reali. E magari giornalisti italiani alla vigilia del prepensionamento, che vorrebbero scoprire che cosa c'è dopo. Parlerete dei problemi ai piedi, di gran lunga il primo argomento, della felicità di trovarvi lì, delle bellezze che ancora vi aspettano e di quante volte lo avete già fatto, il Cammino. E verrà sempre il momento in cui uno chiederà all'altro: ma tu perché lo fai? E ognuno, chi con sicurezza, chi con tortuosi giri di parole, dirà la sua.
La cosa più difficile del Cammino di Santiago è partire. Lo si può fare per una settimana o per un mese, non è detto che lo si debba fare tutto, o tutto in una volta. Ma se per gli spagnoli che ce l'hanno dietro casa è più facile farlo "a puntate", chi viene da lontano cerca di percorrerlo il più a lungo possibile. E non è semplice staccare per tre, quattro settimane da tutto e da tutti, lavoro, impegni, famiglia. E ci vuole un minimo di forza d'animo anche per buttarsi nell'incognita della resistenza fisica, della promiscuità degli ostelli, del meteo che può essere inclemente e va comunque affrontato.

BUEN CAMINO!
Partendo da Saint-Jean, la prima tappa è tra le più impegnative: per arrivare alla mitica Roncisvalle c'è da varcare i Pirenei, se la stagione è agli inizi c'è la neve, magari anche tanta. L'indomani sarete provati, indolenziti, ma la tappa è più breve, più ridente, in discesa. Dopo tre giorni sarete pellegrini fatti e finiti e non vorrete più cambiare questa vita.
Al mattino non vedrete l'ora di buttarvi per via, di scoprire che cosa vi aspetta, di ascoltare il saluto lanciato dagli sconosciuti: Buen Camino! Di commuovervi quando arriva da un finestrino che s'abbassa mentre attraversate la strada a un semaforo, uscendo da una grande città. O dal clacson di un Tir che vi supera, nei rari tratti  in cui il tracciato costeggia la superstrada che porta in Galizia.
Buon cammino!

giovedì 24 giugno 2021

CORONAVIRUS. Bottiglia e sigaretta in tempo di pandemia

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" maggio 2021.
Articolo: "Bottiglia e sigaretta ai tempi di covid-19" di ROBERTA VILLA.

Che a prevalere sia la paura della malattia o la sua sottovalutazione, il risultato non cambia: troppi cercano conforto aumentando il consumo di tabacco o alcol.
Lo si ripete spesso: il bilancio della pandemia in termini di salute non comprende solo chi subisce le conseguenze dirette dell'infezione da SARS-CoV-2.
Il sovraccarico dei servizi sanitari dovuto al dilagare di covid-19 comporta purtroppo un  minor ricorso agli ospedali per altre condizioni e, soprattutto, per esami, controlli, screening deputati alla diagnosi precoce dei tumori e di altre malattie. Tutto questo potrà comportare nei prossimi anni un aumento dei casi e dei decessi attribuibili alla situazione corrente, sebbene non provocato direttamente dal virus.

DUE SINDROMI A CONFRONTO
Un altro impatto negativo a lungo termine potrebbe derivare anche dal cambiamento degli stili di vita imposti dal confinamento e da un più frequente ricorso al telelavoro: per qualcuno ciò implica una maggiore sedentarietà, per altri qualche eccesso alimentare in più. Ma a destare preoccupazione è anche un incremento nel ricorso a sostanze da abuso, da alcol e tabacco a droghe illecite, in risposta al disagio psicologico determinato dalla condizione difficile in cui si trova, per un verso o per l'altro, gran parte della popolazione.
Negli Stati Uniti, per esempio, il consumo al dettaglio di bevande alcoliche nella prima fase della pandemia è cresciuto di oltre un terzo rispetto allo stesso pariodo dell'anno scorso, il doppio rispetto all'aumento delle vendite di bevande non  alcoliche, molto più di quanto si poteva prevedere in relazione alla chiusura di bar  e locali.
Secondo lo studio della University of Southern California che ha calcolato questi dati, pubblicato sugli "Annals of Internal Medicine", l'incremento nelle vendite di tabacco è stata inferiore, ma comunque significativo, intorno al 10 per cento. 
Entrambi i fenomeni si sono verificato in maniera abbastanza omogenea sul territorio nazionale  e tra le diverse fasce di età.
Dati simili rispetto al consumo di alcol sono emersi da un'altra ricerca condotta in Canada, secondo cui invece la frequenza di accessi in pronto soccorso dovuti in qualche modo all'abuso di alcol sarebbe crollata di quasi un quarto durante il lockdown, sempre rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, forse solo perché, bevendo a casa, le persone smaltivano da sole la sbornia e comunque non potevano mettersi in auto, riducendo l'impatto degli incidenti stradali.  I danni, però, si potranno vedere a lungo termine, soprattutto se la cattiva abitudine di bere troppo è proseguita dopo la riapertura.
Questi dati si riferiscono alla prima ondata di covid-19 della primavera 2020, ma i disturbi di ansia che hanno spinto le persone a cercare conforto nella bottiglia o nella sigaretta non sono nel tempo calati. Sono anzi state identificate due diverse sindromi: la prima, caratterizzata da  un'esasperata paura per la malattia e per le sue conseguenze socio-economiche, tale da produrre incubi notturni o altri fenomeni tipici di una sindrome post traumatica da stress; la seconda, speculare, in cui prevale la sottovalutazione di covid-19, nella convinzione che una buona salute sia sufficiente a proteggere l'individuo da un'emergenza sopravvalutata, per cui sono richieste misure eccessive.
Un gruppo di psichiatri canadesi ha dimoestrato sulla rivista "Addictive behaviors" come questi due approcci opposti si associno a un maggior consumo di alcol e droghe, col risultato comune di  ridurre l'attenzione nei confronti delle misure  di distanziamento richieste dalla pandemia. Se non si tratta di disagio psicologico, quindi, oltre ai danni che si possono provocare nel tempo all'organismo, ci si può trovare a dover fronteggiare già da oggi un maggior rischio di covid-19.

lunedì 21 giugno 2021

COMUNE DI ZANDOBBIO. Transito via Selva

 










Quanti automezzi rispettano questi cartelli di divieto nel tragitto Zandobbio - Selva e viceversa?
Mi capita di camminare sulla pista ciclopedonale e spesso vedo passare automezzi a velocità ben superiori. Alla sera, soprattutto, alcune volte sfrecciano automobili e motociclette a 100 all'ora.
Ci sono punti critici su questi 2 chilometri circa di strada e uno mi coinvolge direttamente abitando in via Grena. Queste 2 foto sono state scattate  all'innesto di via Sei in via Selva allo stop di fronte alla ditta Valli.







Provenendo da casa in auto, quando mi fermo a questo stop sono allarmato e Rosaria molto preoccupata, poiché la visuale della strada in direzione del paese è ridotta, non potendo superare la linea stessa. Invece la vista della strada in direzione Selva alcune volte è fortemente limitata dal parcheggio sulle strisce gialle, riguardanti la sosta momentanea degli autobus scolastici, di qualche tir o di altre auto.
Inoltre mi è capitato di uscire dallo stop, dopo essermi accertato della via libera in entrambe le direzioni, e di vedermi piombare addosso un'auto proveniente da Selva di Zanddobbio.
Cosa mi auspico?
Secondo il mio parere (da inesperto di circolazione stradale) è necessario mettere degli autovelox. Non metterei i dossi che costringono i camions ad andare a passo d'uomo e a fare molto rumore nel superamento dell'ostacolo.
Da ultimo mi pongo anche questa domanda: se non ci fosse la pista ciclopedonale che protegge podisti e ciclisti, considerando che questa pandemia ha fatto aumentare di molto il numero dei frequentatori, quanti incidenti gravi ci sarebbero stati? Penso molto di più di quelli accaduti.
Pubblico di nuovo il post COMUNE DI ZANDOBBIO. La pista ciclopedonale di maggio 2016.


mercoledì 16 giugno 2021

DON CAMILLO. Il dado è tratto

 



FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

ALEA IACTA EST

E' una gioia veder confluire i ragazzi in oratorio. Sono le squadre della Scuola Calcio che vengono per giocare
la loro partita, già in divisa, con le loro borse giganti a tracolla, accompagnati da genitori e adulti responsabili del settore.
E la gioia è particolare dopoil lungo tempo della pandemia che ci ha costretti a tenere tutto chiuso. Guardando questi ragazzi che riprendono l'attività sportiva agonistica, penso a tutti i ragazzi che ritorneranno in oratorio non per partite messe in calendario dalle società sportive, ma per giocare liberamente, per incontrare gli amici, per stare in compagnia...
Anche per loro sogno la presenza di genitori e adulti che vengono insieme non per controllarli, ma per vederli giocare o anche solo per passare anch'essi un momento di serenità e di incontro contenti di sentirsi in mezzo al turbinio di quei ragazzi.
In questi 2 anni si è lavorato e abbiamo affrontato spese importanti per predisporre spazi adeguati e dignitosi per questa forma di aggregazione ludica, ma che vuol essere soprattutto opportunità educativa.
Pe questo abbiamo realizzato in mezzo all'area gioco la segreteria che potrà funzionare anche da sala giochi, ma che avrà soprattutto il significato di accoglienza, di punto di riferimento e di presenza attenta e premurosa  di un adulto sensibile e formato, a garanzia di chi frequenta l'oratorio.
L'idea che si è voluto realizzare è quella di uno spazio unitario e sicuro, dove i ragazzi non siano abbandonati a se stessi, ma siano seguiti e valorizzati. 
In concomitanza con lo sviluppo degli spazi ricreativi, è iniziata anche la formazione di un gruppo di persone che avranno il compito di mantenere viva la preoccupazione educativa dell'oratorio secondo lo spirito che gli è proprio, attraverso una verifica costante delle attività e dello stile con il quale vengono svolte, oltre che avere il compito di programmare e proporre iniziative adatte ad una animazione sana, coordinata con la vita e le finalità della parrocchia: è il gruppo GEO (gruppo educativo dell'oratorio) rinominato EEO (Equipe Educativa dell'Oratorio, per espressa volontà della maggior parte dei membri) composto da mamme, papà, giovani, educatori e professionisti impegnati nel sociale, e sensibili nei confronti del mondo dei ragazzi, un gruppo che dovrà diventare sempre più l'anima dell'oratorio anche in previsione che un domani non ci sia più un parroco residente: non per questo dovrà spegnersi la vocazione che una comunità cristiana ha di educare alla fede i suoi figli. Ma anche se dovesse esserci sempre un parroco residente, l'EEO dovrà essere il garante insieme a lui di una continuità educativa e di stile nella vita dell'oratorio.
"Alea iacta est" disse Giulio Cesare ai suoi legionari mentre passava il Rubicone per marciare su Roma. "Il dado è tratto": cioè "la decisione è stata presa" o meglio "il cammino è iniziato". Si tratta di crederci fino in fondo e di andare avanti senza tentennamenti. Sento nel sangue che la direzione è quella giusta.


Festosità bambina

In questa esitante primavera inoltrata
incomincia il cortile  a brulicar di ragazzi.
E' stata faticosa la stagione passata
costretti a restare in case  e palazzi.

Il loro vociare mi richiama alla mente
lo stridio di rondini intorno alla chiesa:
un concerto che da tempo ormai non si sente
perché la natura non è stata difesa.

Troppo sarebbe se tornasse il silenzio
ad opprimere spazi destinati alla vita;
l'amarezza sarebbe più cruda d'assenzio
per la speranza perduta dopo averla tradita.

Per questo io voglio gustare in pienezza
il chiasso festoso di questi bambini:
esprimono gioia, diffondon freschezza,
e della bellezza si fan paladini.


                                           don Camillo

SERGIO. In ricordo del dott. Gabriele Riva

 



Ricordando con piacere il dott. Gabriele Riva, persona squisita, racconto la circostanza in cui lo conobbi di persona. Formava con Graziella una bellissima coppia.

Era una sera di agosto del 1995 ed ero l'allenatore della squadra di calcio di 3° categoria del Gso Zandobbio.
Avevamo un grosso problema: la mancanza di un  massaggiatore in panchina. 
Anche nel campionato 1994-95 Dilettanti a 11 CSI, appena concluso, avevamo questa lacuna, ma per il campionato FIGC che avremmo iniziato a fine settembre il problema andava risolto.
All'inizio del campionato 1994-95 avevo contattato l'amico Giancarlo Bellini, esperto fisioterapista, che mi aveva dato la disponibilità a curare i giocatori infortunati. Tuttavia non poteva andare in panchina durante le partite di campionato.
Quella sera a tavola con la mia famiglia buttai lì la proposta: " Se domandassi al dott. Riva se è disposto a venire in panchina con me, voi cosa ne pensate?".
Originario di Zandobbio, il medico aveva esercitato la professione di pediatra a Bergamo, dove aveva vissuto per molti anni. Andato in pensione, era ritornato a Zandobbio, dove insieme alla moglie era impegnato in opere di volontariato.
Rosaria si mise a ridere e disse: "Immaginati se un anziano dottore accetta di sedere su una panchina di un campo di calcio! Inoltre è un pediatra e voi non mi sembrate tanto piccoli".
"Tentare non nuoce" risposi con filosofia conoscendo bene Rosaria.
Il successivo sabato sera, all'uscita della messa, mi avvicinai disinvoltamente al medico e alla consorte.
"Buonasera dottore. Sono Sergio, l'allenatore di calcio della squadra del paese. Desidero farle una proposta. Non dica sì o no subito, ma ci pensi sopra e mi dia la risposta tra una settimana".
Con queste parole speravo di non ricevere subito un rifiuto, ma di invogliare il dottore a riflettere alcuni giorni.
"Alla mia squadra manca il massaggiatore: verrebbe lei in panchina?".
"Va bene Sergio: accetto" rispose immediatamente l'anziano pediatra.
Rimasi per un attimo a bocca aperta, non essendo abituato ad ottenere un consenso immediato alle mie proposte, ricordando gli alterchi in consiglio. Ma fu solo un attimo e, sorridendo, ripresi il dialogo.
"Il campionato inizia tra un mese e le farò avere il calendario delle partite. Giocheremo sempre la domenica mattina. Sono contento che abbia accettato, poiché mi toglie un grosso peso dallo stomaco".
"Sergio, si meraviglierà, ma sono stato il medico sportivo di una squadra ciclistica di Bergamo alcuni anni fa e quindi accetto volentieri la sua proposta".
Ci lasciammo con una stretta di mano, estesa anche alle nostre due consorti, che avevano assistito silenziose e sorridenti al breve colloquio.
Nel ritorno a casa mi rivolsi a Rosaria: "Hai visto? Tentare non nuoce".
"Non avrei mai immaginato che accettasse" rispose lei, scuotendo la testa.






martedì 15 giugno 2021

SCUOLA. La scuola come incontro

 



FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" maggio 2021.
Articolo: "La scuola come incontro" di DANIELE NOVARA.

A scuola ci vuole la capacità di creare tra gli alunni modalità di relazione tali da consentire alla classe di vivere bene assieme e costruire le conoscenze necessarie.

Agli inizi del 1800, nacque  il mutuo insegnamento. Joseph Lancaster, educatore inglese poco più che ventenne, quacchero di religione, promosse un metodo particolarissimo che diede ottimi risultati tra le classi più indigenti di un quartiere povero di Londra.
Il suo metodo, che restò nella storia dell'educazione e della scuola, si basava sull'idea che gli alunni potessero insegnare gli uni agli altri: chi aveva già raggiunto determinati apprendimenti era in grado e in dovere di insegnarli ai compagni che non li disponevano ancora.
Si inaugurò così, sulla base delle teorie di Jean-Jacques Rousseau, la pedagogia attiva dei secoli successivi, ribaltando lo schema tradizionale dell'insegnante che insegna e dell'alunno che ascolta. In questo modello, gli alunni interagiscono tra di loro in un incontro che diventa un imparare insieme.
In Italia, quasi due secoli dopo, don Lorenzo Milani lo applicò strenuamente e con determinazione nella mitica scuola di Barbiana, nel Mugello fiorentino, dimostrando che, quando la scuola rompe lo schema verticale, si crea uno spirito di condivisione che produce grandi risultati.
Oggi è noto che senza motivazione non c'è scuola né apprendimento. Ci vuole accoglienza, ossia la capacità di creare tra gli alunni quelle modalità di incontro che consentono alla classe di vivere bene assieme e poter così costruire le conoscenze necessarie agli obiettivi scolastici.
Tanti miei libri sono andati in questa direzione. In Con gli altri imparo, scritto con Elena Passerini per conto delle Edizioni Erickson, si trovano tantissime attività per costruire quell'incontro che genera la voglia di andare a scuola. Tra queste, segnalo "L'intervista di gruppo" che è una modalità per conoscersi all'interno della comunità-classe: gli alunni, mettendosi in cerchio, a turno, intervistano un compagno con delle domande di conoscenza sulla sua vita, sui suoi interessi e suoi suoi hobby. E' un modo per mettere al centro, attraverso la tecnica dell'intervista, tutti i compagni, conoscerli e attivare un incontro che permetta di uscire dall'idea che si è a scuola solo per seguire delle lezioni.
L'altra attività si intitola "Il gioco dell'amico segreto": si mettono dei biglietti con i nomi di tutti i componenti della classe, in un cestino,  ogni alunno ne prende uno e , per una settimana, in forma assolutamente segreta, dovrà aiutare il compagno sorteggiato e fargli delle gentilezze senza mai farsi riconoscere.
Alla fine, si socializzano tutti gli amici segreti che a quel punto si rivelano, ognuno racconta le attenzioni che ha messo in campo e il compagno raggiunto racconta se se ne è accorto oppure no.
Questi giochi consentono di costruire un clima favorevole e gli alunni di 6 anni, così come di 14, vanno a scuola con soddisfazione, sperando non solo di incontrare i Fenici e i teoremi di Pitagora, ma anche tanti compagni, con cui costruire amicizie, relazioni ed esperienze comuni. 


martedì 8 giugno 2021

LIBRI. Sulla strada di Jack Kerouac

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio".
Articolo: "Sulla strada" di NICOLETTA MASETTO.


"Dove andiamo?". "Non lo so, ma dobbiamo andare". Da New York a San Francisco, dal Texas al Messico. Chilometri e chilometri percorsi a piedi, in treno, facendo l'autostop. Attraversando praterie, montagne, deserto. Ore e ore a raccontarsi con un compagno di viaggio. Notti a dormire guardando le stelle o ascoltando musica in locali di avanguardia.
Sulla strada è il diario di viaggio di Jack Kerouac, diventato il manifesto della beat generation senza che il suo autore lo volesse. Un libro cult intramontabile, quasi un testo sacro per il movimento giovanile degli anni '50. Dissacratorio, irriverente, mai misurato, trasgressivo.
Kerouac sceglie la scrittura dopo che un infortunio gli stronca una carriera da campione di football. Per farlo non si siede alla scrivania, ma si mette in cammino. E compie quattro viaggi, dal 1947 al 1950, in compagnia di Neal Cassady. Annota la proprie impressioni su fogli sparsi, dai quali, nel 1951, trae il romanzo, scritto di getto su un unico rotolo di carta di 36 metri. Rifiutato dagli editori, verrà pubblicato nel 1957. Protagonista Sal Paradise, alter ego di Kerouac, e Dean Moriarty, dietro cui si cela Cassady.
Per Sal e Dean la strada è fuga dalla noia, dalla quotidianità, dal precostituito ed è ricerca, contraddizione, sete di conoscenza. Non sanno che cosa li spinga, ma sanno che devono andare, che devono procedere per "perdere paesi", come ha scritto Pessoa, e se stessi: "Nulla dietro di me, tutto davanti a me, com'è sempre sulla strada".
La strada è molto di più che asfalto da calpestare. E' il partire, l'andare con coraggio e speranza; è attesa, emozione e incontro. La strada costringe a discutere con le proprie idee, a costruirsi un proprio pensiero, ad affrontare il destino, a sperimentare, a condividere, a sentire il respiro dei luoghi e dei viandanti e, con essi, il proprio; a cercare la rotta, ad ascoltare la musica fuori e dentro di sé. Non è un caso che tutto venga scritto su un'unica, lunga pagina. L'autore sa bene che la parola strada non dovrebbe avere il plurale: tutte le strade sono, in fondo, la stessa strada.
La ricerca umana e letteraria sono racchiuse, poi, nell'aggettivo beat, perdente, diverso, emarginato, sconfitto. Una scelta di vita, volutamente estranea a un  mondo non autentico, improntato a carriera e consumismo. E poi beat sta anche per ritmo, il ritmo del jazz di Charlie Parker, della prosa del libro, ma anche modello etico che chiede di "suonare" la propria vita e la propria arte senza risparmio, fino all'ultimo respiro.
Il senso forse più pregnante è, però, collegato alla radice beatific. Un abbraccio liberatorio con l'identità e umanità più profonde che sono pieno e maturo distacco da tutto, estasi e vera beatitudine. Una condizione che Kerouac ha cercato tutta la vita e non ha mai trovato. In un'intervista, alla domanda: "Si è detto che la beat generation è una generazione alla ricerca di qualcosa. Che cosa state cercando?", rispose così: "Dio. Voglio che Dio mi mostri il suo volto". E il volto di Dio era ciò che, in fondo, cercava anche il nostro Antonio.


VIVERE INSIEME. Frontiere variabili

 

FONTE: "MISSIONARI SAVERIANI" dicembre 2020.
Articolo: "Frontiere a geometria variabile" di FRANCO VALENTI.


Régis Debray, filosofo e giornalista francese, nel suo libro "Elogio delle frontiere", sottolinea l'opportunità delle frontiere in quanto luogo di incontro e di scambio tra le diversità, sia di persone che di merci. Una specie di specchio necessario per mettere a fuoco l'immagine di noi stessi.
Senza voler forzare il suo testo, penso possa rientrare nelle opportunità anche il fatto che le frontiere debbano essere abbattute quando non assolvono più alla funzione di luogo di incontro, ma di separazione e rottura.
Sicuramente, i limiti della pelle del nostro corpo rappresentano l'immagine più appropriata delle nostre frontiere fisiche e , ciascuno nella propria esperienza, sin dall'infanzia, sa che tali frontiere diventano per noi importanti nel momento in cui si incontrano e si affievoliscono, creando empatia e tenerezza.
Purtroppo, l'esperienza fondamentale, vissuta da milioni di cittadini del mondo, è segnata dalla valenza  di chiusura e di minaccia delle frontiere, più che dell'incontro.
Sono diventate, sempre più, luoghi di scontro, di esclusione e, sempre più spesso, di discriminazione. Le frontiere contemporanee segnano la libertà pressoché assoluta del passaggio di merci e sempre più l'impossibilità di transito per gli esseri umani.
Nel sistema internazionale dei passaporti, sappiamo bene quanti abitanti di numerose nazioni, soprattutto le più povere, non hanno la minima possibiltà di usufruire del diritto fondamentale alla libera circolazione. Quest'ultima rappresenta una dote previlegiata, per nascita, per i cittadini degli stati più ricchi e più armati del pianeta.


sabato 5 giugno 2021

SERGIO. Ciao Diego

 

Ogni tanto, quando sto arrancando sulla strada sterrata che porta a Grena, sento qualche ciclista, con caschetto e occhiali scuri, che mi saluta con "ciao Sergio" ed io di rimando quasi sempre "non ti conosco".
Uno di questi appassionati ciclisti mi rispondeva "sono Diego della Selva".
Sto scrivendo queste parole, piango ed il mio cuore risponde: "Ciao Diego. Dall'alto dei Cieli aiutami nel mio faticoso cammino".

venerdì 4 giugno 2021

DON CAMILLO. Il mondo è dei furbi?

 



FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

IL MONDO E' DEI FURBI?

"Il mondo è dei furbi".
Quante volte ho sentito questa frase! Specialmente quando ad ogni iniziativa lasciavo  "offerta libera" per partecipare.
"Don, in questo modo favoriamo sempre i furbi che approfittano senza dare nessun contributo", oppure "Sono sempre i poveri pirla a pagare".
E' vero. Quando si fa offerta libera ci può essere sempre qualcuno che approfitta. Ma è proprio vero che si tratta di furbizia? Se chi ne approfitta lo fa perché è in difficoltà economica, è più che giustificabile. 
L'offerta libera è anche per proteggere persone come questa evitando a loro il disagio e l'umiliazione di chiedere. Se chi ne approfitta lo fa per avarizia e per l'ingordigia di accumulare tutto per sé, allora è una persona triste che non saprà mai godere di ciò che accumula. Ma anche se sapesse goderne correrà sempre il rischio di restare isolato perché nessuno sta volentieri con un tipo che pensa solo a se stesso. Se questa è furbizia, sono felicissimo di essere un pirla.
C'è poi un'altra considerazione da evidenziare. L'impegno dell'offerta lbera educa alla lealtà e alla collaborazione responsabile per realizzare il bene comune senza ambire a ricevere, per questo, riconoscimenti particolari e personali, con l'unica ambizione di riconoscersi nel bene realizzato e nella gioia di chi lo apprezza e lo gode.
Mi è rimasto sempre impresso il metodo del mio prof. di lettere in Seminario, quando frequentavo le medie. Quando assegnava la verifica in classe (es. una traduzione dal latino o in latino), anziché stare a controllare che nessuno copiasse, usciva di classe e ci lasciava soli, dopo averci provocato dicendo che la lealtà è una delle virtù più preziose che sa dare bellezza e dignità alla persona.
Io ero una frana in latino, e quella volta ambivo ad avere almeno un 6 per alzare la media dal 4,5 al 5 ...e ho sbirciato sul quaderno del secchione della classe. Consegnato il compito, mi son sentito così carogna che quella notte non ho dormito, e, quando il prof mi ha riconsegnato il compito con un inedito 7, non me la son sentita di attribuirmi il merito. Arrossendo dalla punta dei capelli agli alluci dei piedi, ho confessato la mia "furbata".
Ero pronto a sopportare una sfuriata, e invece, con una pacca benevola sulla spalla mi disse: "Non ti cambio il voto, perché hai riconosciuto il tuo sbaglio, però non farlo più, perché l'impegno a svolgere da solo la verifica ti promuove più del voto".
E' stata una delle più belle lezioni che d. Aldo Morandi (così si chiamava il prof) mi ha dato. Non ho più copiato in vita mia, e da allora ho fatto della lealtà il mio fiore all'occhiello e il mio metodo educativo.
A tutt'oggi sono convinto della capacità di responsabilizzazione di questo metodo, e pur di mantenerlo, penso che valga la pena di correre il rischio che qualcuno ne approfitti.

                                              don Camillo