mercoledì 29 gennaio 2020

PARR.S.GIORGIO M. DI ZANDOBBIO. 16°anniversario morte p. Simone Vavassori



Lunedì 10 febbraio ricorre il sedicesimo anniversario della morte  di p. Simone.

FAMIGLIA. La rabbia dei bambini


FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" dicembre 2019.
Articolo: "La naturale rabbia dei bambini" di DANIELE NOVARA, pedagogista.

Mi scrive la mamma di Roberto, 4 anni. "Non so più cosa fare. Mio figlio ha delle improvvise crisi di rabbia. Diventa furioso e se la prende con il fratellino di 2 anni. Poi, non contento, comincia a tirare oggetti dappertutto. Allora intervengo, gli dico che non si fa, cerco di bloccarlo. Lo guardo con decisione dicendogli di fermarsi. Lui diventa ancora più furibondo, a volta cerca addirittura di darmi calci e anche schiaffi. Se c'è in casa il padre in genere si trattiene, ma io con ce la faccio più. Avrà qualcosa?".
La rabbia dei bambini piccoli è assolutamente normale e fisiologica, perlopiù legata proprio all'essere piccoli, cioè deboli, inferiori, incapaci di controllare il mondo intorno a loro.
Sentono la frustrazione di non poter fare come vogliono, di essere spesso in balia di adulti ansiosi, insicuri, incapaci di contenerli sul piano simbolico e psicologico ancor prima che educativo.
Si arrabbiano per non poter vedere la tv, per dover condividere i giocattoli con fratellino o perché la mamma non gli dà sufficiente attenzione.
Confondere questa naturale emozione infantile con un disturbo psicologico appare davvero un equivoco pericoloso che fa sentire i bambini colpevoli, semplicemente per il solo fatto di essere bambini con le loro inevitabili fragilità e immaturità.
Il genitore educativo, anzitutto, accetta che i figli abbiano questi momenti, evita di dar loro un significato più grave di quello che hanno, non si spaventa lasciandosi prendere dalle sue reazioni immediate. Non è bloccandolo o punendo la rabbia che si aiuta il bambino, ma lasciandogliela esprimere in modo simbolico e con i necessari paletti.
La tecnica del cestino della rabbia è una buona possibilità. Come funziona? Basta disegnare la propria furia su un foglio, appallottolarlo e gettarlo in un contenitore predisposto. Un gioco liberatorio per sfogarsi senza farsi male.

VIVERE INSIEME. Gli applausi in chiesa


FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" dicembre 2019.
Articolo: "Rumore fuori posto" di LUCETTA SCARAFFIA.


Anche oggi, aprendo il giornale, ho provato un senso di angoscia: al termine del funerale dei due agenti uccisi da uno squilibrato a Trieste, la folla che riempiva la chiesa è scoppiata in un fragoroso applauso. Lo dichiaro subito: trovo orribili gli applausi in chiesa, sempre, ma ancor di più quelli che accompagnano la fine di un funerale.
L'applauso è un'abitudine molto antica degli esseri umani, che ha accompagnato le esibizioni sportive, gli spettacoli teatrali e, soprattutto in tempi più recenti, l'orazione politica. In generale l'applauso è stato sempre la risposta a una performance ben riuscita, in qualche caso più raro un segnale di sostegno a una persona in stato di necessità.  Senza dubbio un forte segnale di gradimento politico, se prodigato durante una riunione di questo tipo, oppure, in caso di esibizioni artistiche, di apprezzamento della qualità dello spettacolo offerto. A tal punto che è stato inventato uno strumento, l'applausometro, per segnalarne con precisione la durata e, da questa, confrontata con quella di altri applausi rivolti a personaggi concorrenti, trarre conclusioni sulla popolarità e l'indice di gradimento delle persone messe sotto esame.
Esiste un altro modo per segnalare la totale condivisione con un oratore politico, oppure l'entusiasmo provocato da un attore e da un artista, la standing ovation, cioè il rafforzamento dell'applauso con l'alzarsi in piedi tutti nello stesso momento. Una doppia forma di consenso, di apprezzamento, un doppio riconoscimento.
Che cosa centra tutto questo con un funerale?
Non c'è spettacolo, non c'è discorso da festeggiare, semplicemente si assiste a un rito, a una cerimonia per accompagnare il morto nel suo passaggio a un altro mondo che non conosciamo. C'è una perdita, una mancanza da medicare, un dolore da alleviare: certamente niente da festeggiare.
Fosse anche il funerale di un comico famosissimo, non è più il momento degli applausi: ora è il momento triste del saluto finale, è il momento in cui tutti i presenti sono posti di fronte alla mortalità di ogni essere umano, quindi anche alla propria morte. Si capisce benissimo che non c'è niente da applaudire. Il silenzio senza dubbio è l'accompagnamento più appropriato a momenti simili, un silenzio di raccoglimento e di preghiera. Il silenzio è l'accompagnamento più serio anche nel caso di funerali laici, nel corso dei quali i presenti si confrontano comunque con la loro mortalità.
Il rumore fuori posto dell'applauso impedisce ogni forma di raccoglimento, ogni preghiera, ogni riflessione sulla morte, della persona che salutiamo e nostra. Segnala il disagio e la paura con cui la nostra società affronta la morte, cercando sempre di negarla, di nasconderla. Con l'applauso fingiamo che la persona morta sia ancora tra noi e stia recitando una performance, che noi festeggiamo come sempre. Fingiamo quasi che sia un compleanno.
Questa orribile moda, che sta prendendo sempre più piede, per di più con il consenso dei sacerdoti - che del resto hanno sdrammatizzato la cerimonia funebre, eliminando preghiere meravigliose come il salmo de profundis, così perfetto per questa circostanza - non fa che rendere evidente l'incapacità della nostra società a vivere la morte, a confrontarsi con il mistero che avvolge le nostre vite. Incapacità che diventa rumorosa negazione: per favore, non applaudiamo più ai funerali. Accettiamo di stare qualche minuto in silenzio, facendoci toccare dal dolore della separazione, dal mistero di che cosa succede dopo. Cioè accettando la nostra condizione di esseri umani.

OGGETTI. Negozio bambole



mercoledì 22 gennaio 2020

I RACCONTI DI QUADRIFOGLIO. Presentazione



Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su qualsiasi cosa una volta al mese.
Ora credetemi che se una parte di me si è sentita onorata (dato che l'ambizione fa parte del mio carattere) dall'altra però mi sono sentita confusa, perchè un conto è parlare, un conto è scrivere.
Ci proverò e per prima cosa mi farò conoscere con il nome Quadrifoglio. Il perché di questo nome? Si dice sempre che è un portafortuna e penso che mai come in questi periodi in tutti i campi ne abbiamo un immenso bisogno.
Non perché in passato non ci siano stati tempi brutti. Anzi lo erano anche più di adesso, l'unica differenza è che forse, avendo molto poco, bisognava diventare forti e responsabili molto presto.
La prima volta che ho trovato un quadrifoglio ero nel prato a fare cicoria con la nonna e mi ero meravigliata nel vedere l'entusiasmo della nonna per un piccolo quadrifoglio. Mi disse, a parte tutto, che ero una bambina fortunata e di conservarlo.
Quindi, tornate a casa, prese il libro delle preghiere e tra una pagina e l'altra mise il quadrifoglio ben disteso, schiacciando poi il libro con un ceppo di legno.
Ora vi saluto e mi scuso se qualcuno trova troppo semplice  questo mio modo di esprimermi, ma anche questo fa parte di me. 
                                   Quadrifoglio  

ZANDOBBIESI. Lucia Belotti prem. stagione 2018/19





Il Comune di Bergamo ha premiato a Palazzo Frizzoni gli atleti che si sono maggiormente distinti nella stagione 2018/19.

Tra i premiati anche la nostra Lucia, appartenente alla società Phb Nuoto Paralimpico di Bergamo.
   
Grande Lucia!  Orgoglio di Zandobbio!


mercoledì 15 gennaio 2020

DON CAMILLO. L'omosessualità non è una malattia




FONTE: avvisi settimanali parrocchia di Albegno.

L'OMOSESSUALITA' NON E' UNA MALATTIA

Continuando la mia riflessione pubblicata sul tema dell'adozione da parte di coppie omosessuali, mi concentro sulla realtà dell'omosessualità che è presente da sempre nella storia umana e da sempre convive con la realtà dell'eterosessualità.
Premesso che esiste un'omosessualiutà che può essere indotta da influenze ambientali o educative o da cattive abitudini affettive; e premesso che esiste una fase di omosessualità di passaggio che fa parte dell'evoluzione affettiva della preadolescenza; vi è un'omosessualità di origine genetica dovuta ad un tipo di costituzione ormonale. Non è una malattia! E' una costituzione naturale congenita che entra a far parte dell'equilibrio della persona. E' su questo tipo di omosessualità che intendo riflettere.
Come c'è in natura l'eterosessualità che è la più diffusa, così c'è in natura l'omosessualità, l'una e l'altra con pieno diritto di cittadinanza nell'ambito della convivenza umana e a maggior ragione nell'ambito del regno di Dio.
L'impegno sia dell'eterosessualità sia dell'omosessualità è quello di gestire la propria affettività nel rispetto della verità e della bontà della propria realtà personale.
Purtroppo sia per l'eterosessuale come per l'omosessuale c'è la possibilità di prevaricare e di degenerare in questo campo. In questi casi non è più grave la degenerazione dell'omosessuale rispetto  a quella dell'eterosessuale. Per entrambi si fa urgente la necessità di conversione che è certamente faticosa, ma è possibile con il concorso della Grazia di Dio.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime così:

2358   Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali innate. Costoro non scelgono la loro condizione omosessuale; essa costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.

2359    Le persone omosessuali sono chiamate  alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un'amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradualmente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.

Restano aperte comunque ancora alcune domande:
l'omosessuale che vive la sua affettività con gesti di delicata tenerezza è proprio da considerare fuori posto o peccatore?
Non ha forse anch'egli il diritto di esprimere la propria affettività salvo restando che non può essere finalizzata alla procreazione e non può essere simile al rapporto della coppia eterosessuale?
Se nella coppia eterosessuale il rapporto rimane buono per il suo significato unitivo anche quando nella coppia lui o lei sono sterili, perché non può essere positivo anche il rapporto di tenerezza tra 2 omosessuali?
E' giusto che per l'omosessuale e solo per lui/lei per crescere nella vita cristiana l'unica via sia quella castità?
La castità "obbligatoria" aiuta l'equilibrio e la crescita spirituale della persona?
Amo la Chiesa esperta in umanità. So che, per necessità di cose, procede a piccoli passi.  Lo Spirito Santo saprà certamente guidarla a individuare risposte capaci di dare serenità e stimoli positivi ad ognuno in base alla sua storia personale e alla sua diversità.

                                                don Camillo




martedì 14 gennaio 2020

ZANDOBBIESI. Patrik Gontarski ai campionati nazionali di atletica leggera

QUESTO POST E' STATO PUBBLICATO PER LA 1° VOLTA IL 30/12/15.


LA' DOVE OSANO LE AQUILE

Mi ricordo ancora bene quel venerdì 24 luglio al campo Primo Nebiolo di Torino: il campionato nazionale di atletica leggera a cui ho preso parte. Non era la prima volta che gareggiavo con atleti di stampo nazionale come Claudio Stecchi, Alessandro Sinno o Marco Boni; avevo già avuto occasione  di conoscerli nei meeting interregionali, ma ogni volta imparo sempre qualcosa di nuovo da loro.

In quella gara non era affatto l'emozione quella che si sentiva tra gli atleti, ma la preoccupazione dell'immensa nuvola nera che si stava avvicinando sempre più. Ogni tanto facevamo battute del tipo: "Vediamo chi finisce sotto il materasso oggi?". Noi astisti siamo quelli più svantaggiati poiché sia la pista bagnata, sia il vento possono influenzare notevolmente le prestazioni di gara, per non parlare degli infortuni; chi corre, invece, non ha questi problemi. Ovviamente per i più esperti e preparati questo pericolo sembra una passeggiata, ma per me non lo era.

Come all'inizio di ogni gara del salto con l'asta, i giudici ci danno a disposizione un po' di tempo per provare le rincorse. I salti di riscaldamento sono sempre un'opportunità per controllare la rincorsa e trovarsi a proprio agio su una pista nuova con l'asta di dimensione e flessibilità giusta.

Parto come sempre, con la mia asta preferita, cercando di ritrovare quel tipo di corsa che mi ha permesso di fare il personale ad Albino.

Ha inizio la gara e i giudici mettono l'asticella. Saltano i primi atleti e intanto il cielo diventava sempre più scuro. Poi vedo comparire sullo schermo il mio nome e mi preparo a sbrigare il salto prima che sia arrivato il temporale. D'un tratto il vento si alzò e l'acqua venne giù facendo fuggire tutti al riparo.
Dopo non molto tutte le gare sono state sospese e la gente era tutta rifugiata sulle tribune. Noi astisti assieme ai giudici avevamo un gazebo che quasi volava a causa del forte vento. L'acqua scendeva dai lati come da un torrente.

Siccome oramai tutta la pista era letteralmente "allagata" tanti di noi chiedevano ai giudici di rinviare la gara al giorno successivo, evitando così la possibilità di infortuni e permettendo a tutti di fare una buona misura.
Purtroppo i giudici non potevano fare granché e siam rimasti sotto il gazebo. Il tabellone fuori indicava il mio nome cosicché un mio compagno, che ormai conosco da tanto, mi ha fatto notare scherzosamente che fosse il mio turno.

Dopo non poco smise di piovere e tutte le gare di corsa ripresero a pieno regime, noi astisti una mezz'oretta dopo. Visto che la temperatura era scesa velocemente di qualche grado durante la pioggia, avevamo il tempo di riscaldarci un po' e asciugare le impugnature delle aste. Ricordo che quei salti di prova non furono tra i migliori, ma almeno scaldarono i muscoli.

Riprendiamo la gara e i giudici rimettono l'asticella a 4.40m, tutta pronta per me. Era un po' strano essere il primo a dover superare l'asticella dopo la bufera, e infatti quel salto non andò a buon fine. Il secondo tentativo, anche se non mi era piaciuto per la tecnica, fu quello giusto e mi permise di andare a 4,60m. Qui purtroppo sbagliai per tre volte e fui eliminato.

Con tristezza e dispiacere vidi poi altri miei compagni divertirsi sulle misure che avrei dovuto fare anche io. Alla fine tornai a casa piazzandomi sul 18 posto con la misura di 4,40m. Purtroppo in queste gare è così, una volta si scende una volta si sale, ma l'obiettivo di volare alto rimane.

Pazienza se non sono riuscito ad arrivare più in alto, pian piano ci arriveremo. Il prossimo obiettivo è superare il muto dei 5m, lì dove osano volare le aquile.

Il salto con l'asta è anche una disciplina in cui oltre al fisico c'entra molto la testa, voglio dire che anche il minimo dubbio o incertezza può influire tanto. Se prima di saltare penso "devo ricordarmi di alzare il braccio più in alto quando stacco" ho già sbagliato in partenza. Bisogna dire "guarda che si vola in alto". Tanti atleti si inventano un piccolo stratagemma (chi urla, chi ascolta la musica, chi ride o scherza, chi fa un piccolo segno, chi si porta un portafortuna...) per vincere la barriera mentale.

Il salto con l'asta non è per me solo un'attività agonistica, come direbbero in tanti, ma è una continua ricerca di migliorare se stessi superando gli ostacoli sempre più grandi. L'asticella per me rappresenta metaforicamente le difficoltà a cui l'uomo è sottoposto nell'arco della vita, e l'asta è un dono che ciascuno ha, e che può usare come meglio crede per superare i propri problemi.

                                          Patrik


Ecco alcune foto:


rincorsa


scavalcamento



atterraggio






ZANDOBBIESI. Ilaria Cantoni a Londra

QUESTO POST E' STATO PUBBLICATO PER LA 1° VOLTA IL 04/02/16.





La mia avventura è iniziata nell'ormai lontana estate del 2012, in una calda mattina di Agosto, fra lo scegliere se cercare un lavoro o frequentare l'Università,  ho stravolto tutti i piani.

Avevo appena conseguito il diploma di ragioneria e non sapevo ancora bene cosa avessi voluto fare della mia vita, non ero convinta per niente. Finché quella mattina nella mia testa si è fatta largo una domanda un po' insolita: "Perché non lasciare tutto e avventurarmi all'estero?"

All'inizio non ho dato molta importanza a questa domanda che mi era apparsa così all'improvviso, da un giorno all'altro. Sembrava il classico sogno irraggiungibile che mai si sarebbe realizzato.
Pareva un risvolto possibile più per un film che per la mia vita.

Piano piano, invece, ho voluto ascoltare me stessa e, giorno dopo giorno, ho iniziato la mia ricerca di informazioni per un futuro che mi sembrava ancora lontano, ma non poi così irraggiungibile. Mi ci è voluto del tempo, molto tempo. Ma, come si suol dire, il tempo ripaga sempre. Finalmente, infatti, in quello che sembrava un giornoi come gli altri passato tra forum e testimonianze di ragazze italiane all'estero, mi sono imbattuta in un sito: www.aupairworld.com.

AU PAIR? Chi diavolo è Au-pair?

Io sono un Au-pair, o meglio, lo sono stata.

Ero una ragazza qualsiasi, senza esperienza, senza sapere una parola di inglese e che ha deciso di trasferirsi in una famiglia all'estero facendo da sorella maggiore a tre piccoli bambini e ad un simpaticissimo Labrador. Tutto questo in cambio di vitto, alloggio ed una piccola paghetta settimanale.

Così la mattina dell'8 Novembre, con il mio biglietto di sola andata in una mano e un  fazzoletto per asciugare le lacrime (dei miei genitori) nell'altra, sono partita per una delle città più belle d'Europa: Londra. Non sapevo cosa mi aspettava, non sapevo proprio niente. Ma la voglia di scoprirlo è stata più forte di tutto  quello che mi potesse impedire di partire.

Non posso certo dire che sia stato facile. Anzi, tutto al contrario.
Ricordo ancora la prima volta che sono entrata in quella che sarebbe diventata la mia nuova casa.

Ad accogliermi c'erano Lisa, Andy, ed i loro tre bambini: George, Ted e Darcy. Sul divano, accanto a loro, c'era Honey, un Labrador di 3 anni. Mi hanno accolto nel migliore dei modi, mi hanno rassicurata e mi hanno messo a mio agio. Devo dire che il mio inglese a quel tempo era completamente inesistente e per i primi tre mesi circa riuscivo a comunicare soltanto a gesti. Questa è stata la parte più difficile. Non riuscivo a comunicare con chi mi stava intorno, non riuscivo ad esprimere le mie sensazioni ed i miei sentimenti.

Ed è così che passavo tutte le sere nel salotto davanti al camino con la mia nuova famiglia inglese guardando film, serie tv, e ascoltandoli parlare fra di loro, assimilando quanto più cose potevo.

Alla mattina portavo Darcy, la mia bambina di 2 anni, al parco e poi in libreria ad ascoltare le storie. A casa ci divertivamo a pitturare con le tempere. Ricordo che le facevo sempre il solletico, perché quando rideva era ancora più bella di quanto già lo fosse. Il tutto mentre George e Ted erano a scuola.

Passavo quindi tutte le mie giornate con lei, la mia bellissima principessa. Lei però era ancora troppo piccola per riuscire a parlare bene, un po' come me. I giorni ed i mesi passavano e, ripensandoci, ora non posso fare altro che ringraziare lei e tutti i pomeriggi spesi a guardare Peppa Pig in tv, che tra grugniti e fango mi ha aiutato ad imparare sempre di più quella lingua che era per me sconosciuta.

Ho capito quanto fosse  importante riuscire a comunicare ed è per questo che facevo di tutto per non sentire e non parlare in italiano. Eccetto quando sentivo i miei amici ed i miei genitori su Skype, ho cercato di passare quanto più tempo potevo con la mia famiglia. Cercavo di parlare sempre di più con loro o anche soltanto ascoltandoli.

A loro devo tutto quello che oggi ho imparato. Mi hanno aiutato come meglio hanno potuto, sono sempre stati disponibili e comprensibili verso tutte le mie esigenze. Mi hanno trattato come una sorella maggiore e sì, mi sentivo parte di loro. Credo che quella di non sentirsi mai soli quando si è lontani da casa sia una delle più belle sensazioni mai provate.

In seguito ho iniziato ad uscire , a conoscere altre ragazze e ragazzi provenienti da tutte le parti del mondo, che erano lì proprio come me.

E' qui che è iniziata la mia fantastica esperienza. Mi svegliavo ogni mattina con la voglia di conoscere e scoprire quante più cose potevo su Londra, quella che ormai era diventata la mia città.

Passare da Zandobbio ad un'immensa metropoli non sapendo nemmeno da che parte girarsi non è stata cosa da niente. Tante sono state le volte che ho chiesto aiuto, tante le volte che ho sbagliato la fermata del bus e mi sono ritrovata dall'altra parte della città, ancora di più le volte passate su e giù nelle stesse vie senza ricordarmi la strada di casa. Infinite sono state le disavventure e, non di rado, la nostalgia si faceva sentire. Mi mancavano gli amici di sempre, mi mancavano i miei genitori, mi mancava la mia casa e mi mancava il mio cagnolino. Il mio cuscino era spesso bagnato dalle lacrime prima che mi addormentassi. Ma comunque dentro di me c'era sempre questa voglia di fare, di scoprire questa bellissima città, che ogni giorno sapeva insegnarmi sempre qualcosa di nuovo. Avevo le mie "nuove amiche" con le quali ho instaurato un  legame che dura tutt'ora. Tante piccole cose, tutte insieme, mi hanno portato a stare lontano da casa per ben due anni.

Londra è diventata così la mia nuova casa.

E' una città stupenda e come ogni città del mondo ha i suoi lati positivi ma anche qualche lato negativo. Inizialmente c'erano tante cose che avrei voluto cambiare, ma giorno dopo giorno ho imparato a conviverci e a trovare i lati positivi. Come il tempo, ad esempio. Londra sembra sempre triste. Le giornate sono sempre uggiose, piove spesso e gli ombrelli non esistono.

Tutta questa tristezza e malinconia viene poi però ripagata dalle poche ma splendide giornate di sole. Non sono molte, ma quando risplende la luce sui tetti, tutto sembra magico.

Per quanto riguarda il cibo a Londra si mangia male, è vero. Bisogna completamente scordarsi della bistecca ai ferri con il contorno di verdure. Con ciò, non ho la presunzione di dire che la mia famiglia non sapesse cucinare, anzi. I piatti erano buonissimi, ma non di certo sani. Tutto era costantemente condito con salse e sughi vari. A colazione, a merenda, a pranzo e a cena non mancava mai il burro. Ricordo addirittura che una volta aprendo il frigorifero ho trovato la bellezza di undici panetti di burro. Lo mettevano persino sulle patatine fritte, con la maionese ovviamente. Avevano addirittura il coraggio di guardarmi male quando mangiavo un piatto di insalata condita con olio e aceto o mettevo un po' di marmellata sui biscotti.

Ma  nonostante il tempo, il cibo e la gente che non sorride mai (se non quando è ubriaca) io Londra l'ho veramente amata. Ho amato quelle immense vie con le loro bellissime case di mattoncini marroni, le finestre a balconcino e le mille porte colorate. Ho amato i pub di legno vecchio e scuro ad ogni angolo delle strade, ho amato vedere uomini, completamente soli, sedersi al bancone ad ordinare qualcosa da bere e vederli uscire due ore dopo, trascinandosi gente appena conosciuta, ridendo e scherzando come se si conoscessero da secoli.

Ho amato la loro totale noncuranza del giudizio del prossimo, del tipo che è normale vedere qualcuno vestito ancora in pigiama (e per pigiama intendo vestaglia e pantofole) comprare delle mele al supermercato. Ho amato i bellissimi parchi immensi e verdi, che nelle giornate di sole si riempivano di bambini, genitori e ragazzi. Tutti erano lì a godersi le poche ore di sole perennemente a mezze maniche, indipendentemente dalla stagione. Ho amato più di qualsiasi altra cosa le fantastiche persone che ho conosciuto, la mia famiglia in primis. Non finirò mai di ringraziarli per la pazienza indescrivibile che hanno avuto all'inizio ed il rapporto che ora si è creato è la prova del legame che c'è tra noi. Un legame che, seppur da lontano, ci sarà sempre.

Partire per Londra per me è stata come una sorta di competizione, una sfida con me stessa. Sono riuscita a mettermi alla prova ed ho capito che impegno e determinazione ti permettono di fare qualsiasi cosa. Londra mi ha così permesso di mettermi in gioco, di fare conoscere lati del mio carattere agli altri ma soprattutto a me stessa. Lati che mai avrei pensato di avere.

Auguro a chiunque stia leggendo queste mie poche e banali righe di partire, di lasciare l'Italia, anche solo per pochi mesi. Vi auguro di vivere un'esperienza all'estero come la mia. Vi auguro di divertirvi, di non avere paura di niente e di buttarvi, senza paura, in nuove esperienze. Vi assicuro che non rimpiangerete nulla, perché quello che si può provare, sarà sicuramente qualcosa di positivo, qualcosa che vi porterete dentro per sempre.

                                           Ilaria 


Ecco alcune foto:
























































































ZANDOBBIESI. Grande Patrik


QUESTO POST E' STATO PUBBLICATO PER LA 1° VOLTA IL 09/07/15.




Su L'ECO DI BERGAMO del 07/07/15 è stato pubblicato questo articolo, dove si parla del grande risultato ottenuto dal nostro concittadino Patrik Gontarski nel meeting di salto con l'asta di Albino: vittoria a pari merito con Nicolò Rumi e Marco Falchetti.

Il giovane zandobbiese ha saltato 4,80 m (migliorando il suo personale di 20 cm), misura minima per partecipare ai campionati italiani assoluti di atletica leggera in programma a fine del mese a Torino.

Patrik sarà così il primo zandobbiese a partecipare ad un campionato italiano assoluto di atletica leggera.

AUGURI PATRIK


ZANDOBBIESI. Soraya Figus sul Cammino di Santiago

Rievocare le emozioni di esperienze passate e trasmetterle con lo stesso genuino entusiasmo ad anni di distanza non è facile, eppure ci sono momenti che segnano il nostro percorso tanto profondamente da rimanere nitidi della memoria.

Il Cammino di Santiago ha rappresentato questo per me, un crocevia tra la mia adolescenza e l'età adulta, una deviazione che ha impresso un nuovo percorso al mio modo di concepire la vita.

Santiago non è necessariamente un percorso religioso e non è in questo modo che l'ho vissuto. Semplicemente, è un'esperienza soverchiante, uno strappo dalla realtà quotidiana così netto da portarti, infine, in un mondo più intimo e raccolto, dove le priorità si ridefiniscono e ci si conosce un poco di più, un poco più a fondo.

Quando sono partita la prima cosa che mi è stata detta, e poi spesso ripetuta, è che non sarei stata io a fare il Cammino, ma che il Cammino avrebbe fatto me. Ricordo di aver riso molto, di aver pensato che questi discorsi sciamanici e un poco visionari alla Paolo Coelho suonavano come un banale cliché. Dicevano che l'umiltà era una qualità necessaria per intraprendere questo percorso e che tutto ciò che sarebbe accaduto, avrebbe avuto una ragione di essere.

All'inizio il pensiero di alzarmi tutti i giorni e camminare ininterrottamente per venti, trenta chilometri, era asfissiante e alla stanchezza si aggiungeva una sorta di noia, di esasperazione, provocata dalle fiacche o dal ginocchio problematico. Non so ben dire in quale momento quel procedere costante e metodico sia diventato, anziché stressante, uno scacciapensieri, quando camminare sia diventato un mero gesto meccanico che accompagnava la mente altrove.

Il Cammino non è composto di fede, ma di persone, è un incontro di anime che si sfiorano e volenti o nolenti condividono.

Ogni tappa è una nuova frontiera che prepara la successiva, fino a pervenire alla costa dell'alba, direbbe Michael Ende, ed infatti, personalmente, il mio Cammino non è finito di fronte alla Cattedrale di Compostela, ma oltre, quando ho raggiunto il faro di Finis Terrae, quando ho guardato il tramonto sull'oceano e ho sentito che, davvero, avevo toccato un confine, ero pervenuta ad un orizzonte, un limite personale.

Ho sentito che quel limite avrei voluto varcarlo. Così, nonostante gli anni, non ho più smesso di cercare la mia personale costa dell'alba. Più che un arrivo, la fine del Cammino è stato il punto di partenza verso nuovi viaggi e un nuovo approccio alla realtà che mi circonda che non avrei mai creduto possibile, un'esperienza forte che mi sento di consigliare, perché ognuno arrivato in fondo, trovi una risposta personale, una verità a domande che nemmeno sapeva di essersi posto.

Alla fine non aveva torto, quel signore che sorridendomi mi aveva detto che sarebbe stato il Cammino a fare me.

                                          Soraya 

Abbandoniamo il mondo del sogno per ritrovarci in un altro. E mentre andiamo attraversandone la frontiera, già si va preparando la successiva, e così via, fino a pervenire alla costa dell'alba.

Ecco alcune foto che ho scattato: