FONTE: "Messaggero di sant'Antonio".
Articolo: "Comunque vivo, fino all'ultimo" di GIAN ANTONIO DEI TOS.
Roberto era un architetto di 64 anni, operato da circa due anni per un tumore alla prostata.
Al momento della diagnosi la sua malattia appariva localizzata, ma in seguito erano comparsi forti dolori alla schiena causati dalla formazione di metastasi alla colonna vertebrale.
Il medico di famiglia lo aveva inviato presso il servizio di medicina palliativa dell'hospice più vicino, con lo scopo di eliminare il dolore e dare supporto alla mobilità.
Roberto viveva da solo. Non si era mai sposato né aveva mai avuto una partner fissa, per sua volontà. Aveva perso i contatti con la famiglia d'origine, ma godeva della vicinanza dei collaboratori del suo studio. Una governante, che però non abitava da lui, si occupava della casa.
Gli piaceva vivere da solo e aveva un grande interesse per l'arte: a volte dipingeva anche, traendone grande soddisfazione personale. Amava l'arte quasi come il suo lavoro, la vera passione della sua vita.
Era affascinato da ogni nuovo progetto che gli veniva commissionato, nel quale impegnava tutto se stesso con risultati sempre eccellenti. La cosa che non sopportava era di essere inattivo e lontano dalle sue ricerche stilistiche.
Accettò fin dall'inizio la malattia e le sue conseguenze, senza manifestare particolari angosce: purtroppo non c'era una cura risolutiva, quindi concordò con i medici e gli infermieri che il trattamento riducesse i sintomi al minimo, per poter continuare a fare le cose che amava.
La vita gli era sempre sembrata un grande mistero e un'opportunità per esplorare se stesso e il mondo.
Credeva in Dio, ma non praticava una religione particolare e aveva il desiderio di poter avere ancora il tempo sufficiente per appagare alcuni suoi interessi, compreso il lavoro.
Non trovava sensato pensare che sarebbe dovuto morire; ciò sarebbe accaduto comunque e in ogni caso, e nel frattempo voleva conservare il più alto livello di qualità di vita possibile.
La sua filosofia di vita irritava alcuni membri dell'équipe di cure palliative, perché credevano che in realtà Roberto stesse negando la sua condizione.
Nell'hospice ottenne di avere una stanza per conto proprio, in modo da poter continuare a lavorare. Carte e computer avevano invaso l'ambiente, un ulteriore motivo di stress per i medici e gli infermieri, irritati oltretutto dal fatto che il paziente non accettasse di assumere le dosi di analgesico che essi ritenevano necessarie per un adeguato controllo del dolore.
Roberto rifiutava le dosi più alte perché lo stordivano e gli impedivano di seguire il lavoro. Il suo rimedio personale era bere certi distillati di frutta o di erbe aromatiche, che si faceva mandare da un collega austriaco suo amico, associandoli alla morfina.
Agli alcolici, del resto, era abituato; così non accadeva mai che perdesse il controllo o si ubriacasse. Il suo bere "grappa" faceva inorridire lo staff che cercò di impadronirsi dell'alcol per somministrarglielo sotto il proprio controllo.
Questo comportamento protettivo fece molto arrabbiare il paziente, che rivendicava di essere una persona in grado di intendere e di volere, col pieno diritto di fare a modo suo.
Verso la fine dell'anno, nonostante la terapia, ricomparve un violento dolore alla schiena e una sensazione di perdita di sensibilità alle gambe. L'esame clinico rivelò un iniziale crollo vertebrale lombare, con la possibilità di una compressione midollare che doveva essere trattata con radioterapia.
Roberto non aveva paura della radioterapia, ma aveva già in mente di recarsi per alcune settimane, come da molti anni faceva, a Barcellona, città nella quale aveva studiato e patria dell'architetto Gaudì, la cui opera era per lui fonte di ispirazione.
Allora l'équipe medico-infermieristica cominciò a spiegare quali erano i rischi che derivavano dalla scelta di non eseguire la radioterapia.
Egli accettò di discutere e comprese i termini della questione, ma preferì seguire quanto aveva programmato. Fu etichettato come un paziente non collaborante e difficile.
La sua scelta pareva irremovibile: non voleva ritrovarsi nella condizione di non poter più rivedere le opere di Gaudì...Infatti, se il trattamento avesse fallito, sarebbe potuto rimanere immobile o comunque impossibilitato a viaggiare.
Durante una discussione con il medico più giovane del gruppo, dichiarò che sicuramente amava la vita, ma che ognuno aveva un suo destino, che la malattia è un evento ineluttabile e che in fondo c'è qualcosa di misterioso in tutto ciò. Aveva avuto molto dalla vita e ottenuto tante soddisfazioni: la medicina non poteva interferire con ciò che lo rendeva felice. In definitiva, non aveva mai accettato il ruolo di "paziente"; capiva di essere in difficoltà, ma voleva supporto solo per superare gli effetti della malattia che gli impedivano di raggiungere i propri obiettivi.
Non poneva mai alcuna domanda sulla morte, persino quando l'argomento emergeva nella discussione con l'équipe. Dichiarò solo di non temerla: essa viene quando viene ed è la fine di tutto.
Roberto andò a Barcellona e continuò a lavorare fino al giorno prima di morire.
La mattina del giorno della sua dipartita si comportò come uno qualsiasi degli altri giorni trascorsi nell'hospice, se non per il fatto che chiese di poter incontrare un caro amico e collega, a cui aveva regalato un suo acquerello che desiderava rivedere. Durante la visita divenne sonnolento, e un'ora dopo morì.
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