giovedì 16 febbraio 2017

SPORT. Uno sbirro che piace


FONTE: "il venerdì di Repubblica" del 16/12/16.
ARTICOLO: "C'è uno sbirro che piace agli ultrà (e viceversa)" di PAOLO BERIZZI.

BERGAMO. Potranno gli ultrà avere nostalgia di un poliziotto che li prendeva a calci nel sedere e a manganellate? 
La risposta si chiama Elio Carminati: 197 centimetri per 115 kg, il "Gigante Buono" e altri soprannomi meno retorici. Tutti guadagnati sul campo. Dove il campo, qui, sono i cortei e le cariche: dentro e fuori lo stadio di Bergamo.
Ogni tifoseria a Carminati ha affibbiato un nomignolo: "Pilone" (come il gigante  del film Porky's) e "Mazinga", per gli atalantini; "Robocop" per i veronesi; "Rambo" per i milanisti. E via così.
Lui che gli ultrà - queste tribù sempre in cerca di adrenalina (e di guai) - li considera, a torto o a ragione, "bravi ragazzi che si fanno prendere la mano". E con cui "bisogna dialogare".
Adesso, a 57 anni, in pensione dopo 30 di servizio alla Squadra mobile di Bergamo, e lunghe giornate di ordine pubblico, scherza un po': "Sicuramente il fisico mi ha aiutato nella mia professione: mi dicevano che incutevo un certo timore...". 
Mavà?! "Allo stadio mi occupavo del controllo e della protezione della tifoseria ospite. Dovevo contrastare gli attacchi degli ultrà atalantini. Scortavo gli "altri" dalla stazione fino allo stadio a piedi. E ritorno. Un giorno  c'era un plotone di ultrà ad attenderci. Eravamo solo un carabiniere ed io. Due contro tutti. Non sapevamo cosa fare. Dopo un lungo giro arrivammo alle spalle dei bergamaschi. Casco in testa e manganello in mano ci mettemmo a correre tra di loro, urlando. Gli ultrà credettero che ci fosse una carica in arrivo e si sparpagliarono..." racconta Carminati.
L'epopea di "Pilone" - maxi-prototipo dello sbirro di strada, più celebre nelle curve che nei Palazzi - inizia a metà anni '80. 
La violenza ultrà dilaga in Italia e Bergamo, che di quell'epoca complicata era un laboratorio: scontri, agguati, sassaiole, lacrimogeni. 
Le trasferte coi treni speciali. Zero tessera del tifoso. In mezzo a quel rebelòt - "casino" nel dialetto lombardo - spiccava una sagoma: jeans, giubbino smanicato, casco, manganello (il più possibile a riposo). Eccolo l'Elio in borghese. Come quella volta che salì i gradoni della curva dei tifosi della Fiorentina: avevano forzato la porta di un magazzino per provare a munirsi di pale e picconi.
"Pilone" si aprì un varco nel settore: da solo. Raggiunse gli ultrà e, come un padre che punisce i figli, li prese e calci nel sedere.
Sbirro a chi? è il titolo del libro (edito da Bolis) che Carminati - ex garzone, ex operaio, ex bagnino, ex infermiere - ha scritto (con il giornalista Federico Biffignandi) per raccontare se stesso e i suoi mondi: gli ultrà, certo.
Ma non solo: anche gli operai di cui è stato collega ("che imbarazzo fare l'ordine pubblico con davanti chi ha perso il lavoro"), e poi rapinatori, banditi, spacciatori, assassini, suicidi sventati e assassini catturati.
"L'uso della forza è l'estrema ratio. E comunque pagano sempre in modo spropositato gli ultrà, quasi mai l'agente che sbaglia".
Sarà anche per questo che a Bergamo, dopo oltre due decenni passati a fare "guardie e ladri", di "Pilone" gli ultrà hanno nostalgia.
Ecco il messaggio che gli hanno dedicato sulla fanzine Sostieni la Curva: "Non avremmo mai pensato di rimpiangerti. Sei stato il nostro incubo. Siamo stati scorretti con te, ma ora che sei in pensione vogliamo ringraziarti per la tua grande umanità".



RIFLESSIONI. Riconoscere le proprie ferite


FONTE: libro "SCEGLI LA VITA" di YVES BOULVIN - ANNE VILLEMIN.
EDITO da EDIZIONI MESSAGGERO PADOVA.


Abbiamo tutti delle ferite. Accettare di vederle è la via dell'umiltà.
Le mie ferite sono presenti nelle mie reazioni emotive eccessive, nelle mie tensioni, nelle mie fatiche improvvise, negli incidenti che accumulo, nelle mie somatizzazioni, nei transfert che faccio, nelle mie idee fisse, nelle mie continue insoddisfazioni, nella diffidenza che nutro verso tutti, nella mia loquacità o nel mio mutismo, nei miei irrigidimenti, nei ripiegamenti  su me stesso, nei giudizi che emetto su me stesso e sugli altri, nelle mie aggressività, nelle mie fughe, nella mia brama di possesso, nelle mie compensazioni, nei miei eccessi, nei giochi psicologici cui mi abbandono (persecutore, salvatore, vittima), ecc.
La vita psichica si traduce in un'alternanza di stati di eccitazione e depressione, di felicità esorbitante e infelicità assoluta.
La depressione significa che la vita psichica ha preso il sopravvento sull'essere profondo. Mi eccito, mi entusiasmo e poi crollo.
Quando sono nel mio essere, nel mio nocciolo centrale, là dove c'è continuamente Dio, sono felice. Ciò non significa che, una volta scoperto quel luogo dentro di me, la mia vita diventi immediatamente facile ; significa solo che conosco un modo di vivere completamente diverso dal quello del mio psichismo. Non posso prescindere totalmente dal mio psichismo, ma, quando sono afflitto, so di poterne uscire, perché ho conosciuto quella parte di me nella quale sono già nella pace e nella gioia.


SCUOLA. Bocciare alle elementari?


FONTE: "il venerdì di Repubblica" del 03/02/17.
ARTICOLO: "Una buona scuola non deve bocciare alle elementari" di SALVO INTRAVAIA.


Fermi tutti. Abbiamo esagerato. Alle elementari si boccia troppo.
Così il governo pensa di intervenire con un colpo di penna. Anzi, di decreto. Basta vedere l'articolo 3 della bozza  del provvedimento sulla "valutazione" che completerà la rivoluzione della Buona scuola rilanciando un comma che era già nella legge 169 del 2008.
Dice: "Nella primaria, i docenti della classe in sede di scrutinio, con decisione assunta all'unanimità, possono non ammettere l'alunno alla classe successiva solo in casi eccezionali e comprovati da specifica motivazione".
Ma quali sono questi "casi eccezionali"?
Anzitutto, quelli  degli scolari, spesso provenienti da ambienti difficili, che saltano molti giorni di scuola o appaiono totalmente disinteressati alle lezioni. E' chiaro che bisognerebbe riuscire a portarli in classe e a coinvolgerli, ma la scuola spesso non riesce in questo compito, certo non facile, e i maestri chiudono il cerchio bocciando.
Gli ultimi dati forniti dall'ufficio statistica del ministero dell'Istruzione parlano chiaro.
Nell'anno scolastico appena concluso, il 2015/2016, i bocciati alla primaria sono più di 11 mila, pari  a circa mezzo punto percentuale. Un dato invariato negli ultimi dieci anni.
Il numero cresce poi, ovviamente, alle medie e alle superiori collocando l'Italia tra i primi Paesi della Ue per dispersione scolastica.
Per non parlare delle mancate iscrizioni e degli abbandoni all'università.
In Europa si usa l'espressione early leavers from education and training (abbandoni precoci dei percorsi di istruzione e formazione): tra i giovani di età compresa fra i 18 e i 24 anni da noi nel 2015 erano il 14,7 per cento.
Secondo l'ultimo report (2013) sulla dispersione scolastica del ministero dell'Istruzione, l'identikit degli scolari considerati a maggior rischio di abbandono corrisponde a due profili: stranieri e ragazzi delle regioni meridionali più povere.
Forse, anziché cercare di abolire le bocciature ope legis, sarebbe il caso di prestare maggior attenzione a questa situazione.
D'altra parte ben pochi docenti considerano utile una bocciatura alle elementari.
"Non serve a niente" spiega Daniela Lo Verde, preside dell'istituto comprensivo Falcone allo Zen di Palermo.
"E non ci si può accorgere a giugno che qualcosa non va" prosegue la dirigente scolastica, che opera in uno dei contesti più difficili d'Italia.
E aggiunge: "Se un bambino non ha raggiunto gli obiettivi minimi, significa che qualcosa non ha funzionato. E non credo che le colpe siano sue. Bisogna lavorare per classi aperte e potenziare, in base agli organici, i gruppi di supporto per aiutare i meno attrezzati a raggiungere gli obiettivi. E poi, non sempre le famiglie sono in grado di collaborare. E' un lavoro che va fatto a scuola".

giovedì 9 febbraio 2017

VIVERE INSIEME. Il desiderio di morire in Italia


FONTE: "il venerdì di Repubblica" del 16/12/16.

Dall'eutanasia al testamento biologico. La situazione in Italia.

EUTANASIA. Vuol dire dolce morte. In Italia è vietata. Chi provoca la morte di una persona su sua precisa richiesta viene punito con l'articolo 579 del Codice Penale (omicidio del consenziente). 
In Svizzera, invece, alcune associazioni come "EXIT" accolgono i malati dopo aver valutato le cartelle mediche che indicano una malattia senza speranza. Solo allora il paziente beve alcuni farmaci che lo portano alla morte nel sonno.

RIFIUTO DELLE CURE. La Costituzione (Art. 32) dice che nessuno può essere obbligato a subire trattamenti sanitari, che si possono accettare o rifiutare.
Il rifiuto, ad esempio della respirazione forzata o della chemioterapia, rientra nella legge del consenso informato (n. 145/2001). Si può dire di no alle cure anche se questa decisione può portare alla morte.

TESTAMENTO BIOLOGICO. Si possono rifiutare le cure ma solo se si è coscienti.
Il problema nasce se non lo si è (il caso di ELUANA ENGLARO del 2009).
Per questo da anni si aspetta una legge che possa indicare a medici e parenti le scelte in materia di trattamenti sanitari nel caso di cui non si sia in grado di comunicare.

OGGETTI. Borraccia artistica




RES PUBLICA. Organizzare le Olimpiadi


FONTE: "il venerdì di Repubblica" del 13/01/17.
ARTICOLO: "Ripensando alle Olimpiadi: meno male che Roma ha detto no" di CURZIO MALTESE.


Fra i tanti errori commessi in pochi mesi a Roma dai grillini, almeno un merito bisogna riconoscerlo ed è di aver allontanato dalla capitale lo spettro delle Olimpiadi.
La questione, si sa, è controversa e si combatte tuttora sulla rete a base d'insulti e di slogan fra pro e contro, come tutto il resto ormai, dalla nascita dell'universo alla formazione del governo e a quella della squadra del cuore.
Ma se si analizzano i fatti e i dati, antica mania di alcuni giornalisti ormai fuori moda, gli ultimi Giochi sono da inserire nella categoria delle grandi catastrofi, al pari di terremoti, alluvioni e tsunami.
Il Brasile è appena uscito dall'abbinata mondiali-olimpiadi, che doveva rilanciarne l'economia, come una nazione in ginocchio.
I costi dei Giochi, lievitati in corsa da 10 a 20 miliardi, hanno ridotto Rio de Janeiro sull'orlo del fallimento.
I 120 mila posti di  lavoro generati, invece dei 300 mila promessi, si sono dileguati all'80 per cento in pochi mesi. Il miraggio del guadagno economico e turistico si è rivelato come tale, il Paese rimane in forte recessione (meno 3,3 per cento nel 2016), con un record di 12 milioni di disoccupati, percorso da violente rivolte, e nel mezzo di una crisi politica spaventosa, con l'ex presidente Dilma Rousseff rimossa dall'impeachment.
Non tutti i guai naturalmente si possono attribuire a Rio 2016, ma di certo i costi impazziti dei Giochi sono stati una mazzata supplementare e guardando anche ai precedenti, la Grecia per esempio, non si può dire che la fiaccola olimpica porti fortuna.
Si capisce insomma perché le città che hanno rifiutato i Giochi 2024 (Roma, Boston, Toronto, Amburgo, Madrid) siano più di quelle rimaste in corsa: la Budapest del regime di Orban, l'eccezione Los Angeles - l'unica sede ad aver chiuso un'olimpiade in attivo - e la favorita Parigi, dove tuttavia la paura per gli attentati e per i costi colossali della sicurezza sta ingrossando le fila dei critici.
E' una mia vecchia idea che il prezzo dei Giochi andrebbe diviso fra i bilanci pubblici e i grandi sponsor come Coca Cola e American Express, che sono gli unici a guadagnarci. Una proposta ragionevole ma meno efficace delle mazzette ai membri del Cio.
Roma in ogni caso non aveva bisogno dei Giochi per farsi conoscere nel mondo, tanto meno di togliere soldi al recupero delle periferie e concentrarli su grandi opere per metà incompiute, in un'orgia di tangenti, come ha appena fatto Rio.
Di questo almeno, come avrebbe scritto Giorgio Bocca, grazie barbari.


giovedì 2 febbraio 2017

SALUTE. La frutta secca

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" dicembre 2016.
I CIBI DELLA SALUTE a cura di Luisa Santinello.


Secondo una ricerca statunitense , chi ne mangia 30 grammi al giorno riduce il rischio di contrarre diabete, tumore e problemi cardiaci.

NOCI

Ricche di acido grasso linoleico, aiutano l'organismo a ridurre i livelli di colesterolo nel sangue e prevengono le patologie cardiovascolari.
L'alto contenuto di fibre regolarizza le funzioni intestinali.
Unico neo: le calorie. Cento grammi ne apportano oltre 600. Occhio dunque alle quantità.

DATTERI

Frutti della palma Phoenix Dactylifera, sono un concentrato di zuccheri, fibre, flavonoidi, vitamina A, potassio, ferro, calcio, magnesio.
Tra le loro molte proprietà: riducono le infiammazioni, contrastano i radicali liberi, le patologie cardiache e la stitichezza.

FICHI

Ottenuti lasciando essiccare il frutto del Ficus carica, sono una notevole fonte di energia, come pure di vitamina (B, A e C), ferro, magnesio, potassio, fosforo, calcio e sodio.
Favoriscono la digestione e tengono a bada l'ipertensione e l'anemia.

FILM. Io, Daniel Blake

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" dicembre 2016.
ARTICOLO: "Quanti sono i Daniel Blake?" di PAOLO MARINO CATTORINI.

"I ricchi guariscono prima?" 
L'editoriale della rivista "La Civiltà Cattolica", apparso nel novembre 2010, sollevava un interrogativo provocatorio, che è tuttora pertinente.
E' davvero equo un sistema sanitario moderno che vanta una missione assistenziale (offrire a tutti le cure dovute, anche a chi è indigente), ma che penalizza chi è sprovvisto di mezzi e potere contrattuale?
A livello sia mondiale che nazionale - continuava l'articolo - le probabilità di contrarre una malattia e di patirne i danni sono strettamente legate alla condizione socio-economica della persona, alla professione svolta, al reddito annuo, al grado di istruzione, al luogo di nascita, alla capacità di reperire le informazioni giuste e di scalare le liste di attesa, alla qualità della prevenzione offerta da un salubre stile di vita.
Eppure non siamo tutti cittadini dello stesso valore, con la medesima dignità i medesimi diritti fondamentali?
Una decente, elementare, efficace  assistenza sanitaria non è forse un'esigenza primaria e incomprimibile? Non rappresenta una pietra miliare per il tipo di cittadinanza inclusiva che vogliamo costruire?
I dibattiti  bioetici hanno fatto emergere, in proposito, differenti teorie della giustizia.
La dottrina sociale cristiana sottolinea il dovere di dare a ciascuno secondo il suo bisogno, chiedendo a tutti di partecipare alle spese secondo le loro possibilità economiche. Questo ideale di equità va costruito, conquistato, difeso.
In un discorso alle Acli del giugno 1948, papa Pio XII confermò la sua solidarietà alla lotta leale degli operai per i loro diritti: "I lavoratori (...) prima che sull'aiuto altrui, debbono contare sui propri sforzi, sulla loro propria difesa, sulla loro mutua assistenza".
Oggi, però, la nozione di bisogno sanitario è diventata imprecisa. Sfuma con il desiderio individuale (la rincorsa di una più alta qualità della vita), e viene interpretata in forme molteplici nel contesto pluralistico in cui viviamo. 
Pare inoltre velleitario, illusorio e insopportabilmente costoso promettere di sanare i bisogni di tutti, perché le risorse disponibili, su scala mondiale, sono scarse e qualcuno verrà inevitabilmente curato dopo e peggio degli altri.
Tanto vale, quindi, domandarsi sinceramente: chi curare per primo? E perché? Quali patologie meritano un intervento rapido? Quali, invece, possono aspettare? Con quali criteri fare il triage (la scelta tra pazienti) quando la lista d'attesa non può venire subito soddisfatta?
E' singolare quello che sta capitando. Da un lato regimi liberisti, come quello Usa, in cui si privilegia la capacità di pagare in contanti o tramite assicurazioni private, hanno cercato di imparare dai sistemi europei strategie distributive più egualitarie, in  modo da non penalizzare i poveri, gli svantaggiati, i soggetti non autosufficienti.
Dall'altra, sistemi di welfare (assistenza per tutti) hanno introdotto tattiche di compensazione economica per contenere la domanda di servizi (una domanda spesso irrazionalmente esosa), e per concentrare le risorse su interventi costosi, ma realmente necessari. Si incentivano gli sforzi dei lavoratori, si limita la tassazione, si assottigliano le tutele generiche. Si cerca di offrire medesime opportunità lungo l'intero ciclo biografico, e si responsabilizzano gli individui a migliorare le loro chance di "funzionamento" sociale. Ma qualcuno non ce la fa: ticket troppo alti, tempi di attesa intollerabili, tagli gestionali pesanti.
Nel film John Q di Nick Cassavetes (2002), un operaio sequestra il Pronto soccorso perché il suo bambino cardiopatico sta morendo, e la scarna assicurazione non può pagare il trapianto.
All'opposto, nella quarta stagione di House of Cards (2016), il presidente degli Stati Uniti riceve un fegato che non gli spettava: qualcuno ha manomesso gli elenchi, e ha lasciato morire un altro malato che aveva urgente priorità di cure.
Le scelte di giustizia economica hanno sempre una natura etica. Dipendono, cioè, da una certa visione della vita buona e dell'equità sociale.
Tali opzioni esigono quindi una supervisione da parte di comitati indipendenti e interdisciplinari, che verifichino la coerenza dei meccanismi decisionali e ne valutino le conseguenze: chi viene escluso? Chi viene privilegiato? E per quale ragione?
I cittadini hanno diritto di conoscere i criteri allocativi (cioè di assegnazione dei beni), di discutere le regole con cui sono redatte le liste d'attesa, di approvare o criticare la visione di giustizia che un'azienda, una clinica o un'organizzazione professionale ha deciso di privilegiare.
I responsabili politici, le istituzioni sanitarie, le associazioni di malati, i consulenti di etica hanno l'ulteriore compito di confrontare il valore  delle teorie rispetto alle storie concrete di malattia e cura.
Ken Loach, regista britannico, classe 1936, che aveva già denunciato i rischi sofferti dagli operai a causa di una brutale privatizzazione delle ferrovie nel suo film Paul, Mick e gli altri (2001), offre agli schermi la lotta del carpentiere sessantenne Daniel Blake per difendere diritti assistenziali che gli vengono negati da un sistema burocratico, impersonale, aziendalistico. Si può leggere il film come un appello diretto a cittadini sconosciuti, distratti, ignari. 
Io, Daniel Blake, cardiopatico, vedovo e senza figli, mi rivolgo a voi, spettatori di ogni rango, e vi chiedo solidarietà. Ve lo scrivo sui muri con lo spray, se occorre: non so usare il computer, ma vorrei tornare a lavorare, non mi danno un sussidio, se non mi mostro attivo, ma i medici mi hanno sconsigliato lavori di fatica. Io aiuto Kate, single e madre di due figli, costretta a peregrinare per avere una casa popolare. Noi quattro stringiamo una strana alleanza, siamo una "famiglia" di mutuo soccorso sull'orlo del precipizio. A mia volta ricevo qualche regalia, trovo qua e là persone squisite, generose. Ma non basta. E non è colpa mia, non sono uno sfaticato né un profittatore. Voglio essere trattato con dignità perché sono un cittadino anch'io. Niente di più, niente di meno.
Che cosa si può fare , in casi come quello di Blake? Con chi dobbiamo prendercela? Con il mito neocapitalista? Con l'impotenza sindacale? Con i consulenti che raccomandano di farti furbo, di farti notare se non vuoi essere escluso? Con la colpevole indifferenza dei "sani" o di chi può godere di benefici contrattuali speciali?
Daniel Blake, che vive a Newcastle, città costiera e politicamente sensibile, si sente un senza-patria, un immigrato, pur essendo inglese, perché di fatto è respinto ai margini della comunità e deve elemosinare il pane quotidiano dai banchi alimentari. Il regista adotta forme di racconto essenziali, grezze, addirittura semplicistiche, al limite del moralismo. La recitazione è quasi improvvisata, spontanea, neorealistica. La vicenda  gli interessa di più della sperimentazione stilistica. La denuncia sociale gli preme più dell'abilità di montaggio. Eppure questa cifra di "documentario" è la più adatta al messaggio lanciato quando un cittadino debole ed escluso lotta per sopravvivere, non c'è spazio per allusioni colte.
Ci si difende con un po' d' ironia e di buon senso, ma la voglia di ridere dura poco. Prevale l'indignazione per un assurdo destino di solitudine e la fame diventa la figura istintuale, impertinente e oscena di un desiderio di liberazione.
Mangiare con le mani, vergognosamente, di nascosto, il cibo di una scatoletta da supermercato, come fa Katie, corrisponde all'attesa elementare dello spettatore che avverte il bisogno di offrire aiuto, di cancellare lo squallore, di mettersi in bocca immagini di solidarietà.
La prima sequenza è al buio: sentiamo solo le risposte irritate di Dan all'ufficio di collocamento. La macchina da presa segue da vicino le vicissitudini di un povero, e ne restituisce lo sguardo attonito.
Spesso l'obiettivo fotografico sta fermo davanti agli attori e li aspetta, con una pazienza negata dalla società degli affari.
Il cinema è una visione che cerca di sopravvivere al buio, di lottare contro l'indifferenza dei guardoni, di impedire l'evasione banale.
Il cinema promette un regno a chi è ferito dall'ingiustizia e intanto lega gli spettatori a un patto di cura. Una materia incandescente, che ci scotta le retine, esce dai racconti di denuncia, e invoca aiuto.
Il cinema sul lavoro parla del lavoro del lavoro del cinema. Senza sconti. Senza maquillage. Senza effetti speciali. E' già speciale stare al mondo.

DON CAMILLO. Per Ermenegilda





Questa poesia  è dedicata ad ERMENEGILDA POLI, bella figura di cittadina e maestra di Cene, alla quale recentemente è stata intitolata la Scuola Primaria di Cene.


PER ERMENEGILDA

Come l'aquila in cielo volteggia
e scruta gli orizzonti più ampi;
come l'acqua che scorre e gorgheggia
e irrora i boschi e i campi;

così per noi tu sei stata
compagna, maestra e amica
scrivendo con penna fatata
la Storia moderna e antica.

Grati per questa ricchezza
fissiamo per sempre il ricordo.
Non vinca mai la stanchezza
né alcuno al tuo spunto sia sordo.

                                    don Camillo

VIVERE INSIEME. Passione della verità


FONTE: "Messaggero di sant'Antonio"
Articolo "Una parola sincera e gratuita" di PAOLA BIGNARDI.

Colpisce il modo perentorio con cui Gesù invita a essere persone leali, appassionate della verità: sì sì, no no! Così il Vangelo ci dice che per vivere da discepoli del Signore occorre essere lineari nella coscienza e trasparenti nei propri discorsi: non possiamo giocare con le parole per dire e per non dire, in  modo da mascherare quello che pensiamo veramente.
Noi invece siamo portati a pensare che la sincerità non sia tanto importante. 
Del resto il contesto odierno è così complesso da rendere facile il mimetizzarsi, il confondere le carte.
Basti pensare che attraverso un computer si può dialogare con persone delle quali non sappiamo nulla: né chi sono, né dove sono, né che volto hanno; e così è facile raccontare ciò che vogliamo, senza che nessuno possa verificarlo.
Più aumenta la possibilità di slealtà e d'imbroglio, più aumenta la diffidenza nei rapporti tra le persone, talvolta anche tra marito e moglie o tra genitori e figli. Si ha paura che l'altro non ci racconti la verità, e allora si cerca di controllare, di verificare, alimentando quei sospetti che avvelenano i rapporti.
Dire la verità significa riconoscere che c'è una realtà oggettiva, che non possiamo piegare alle nostre esigenze o ai nostri capricci e saperla rispettare.
La maturità con la quale sappiamo prenderci le nostre responsabilità è una delle ragioni che ci rende capaci di questo rispetto della verità.

Vorrei citare tre situazioni in cui è messa alla prova la nostra sincerità.
Le giornate che viviamo sono piene di occasioni in cui siamo tentati dalle piccole bugie: "Che male c'è se dico che sono impegnato all'amico che chiede di venirmi a parlare?", mentre in realtà ho voglia di essere lasciato in pace  e di restare in casa tranquillo a guardare la tv?
"Che male c'è se dico di aver già studiato", anche se non ho ancora aperto un libro?
Sono tante le situazioni in cui siamo tentati di raccontare una realtà che non c'è, solo perché questo ci fa comodo.
In questi casi la falsità riguarda piccole cose, ma rischia in questo modo di diventare abitudine, stile: un  modo di essere, che le persone attorno a noi percepiscono.
Nel rapporto con coloro che sono abituati a non dire la verità nelle piccole cose si respira una doppiezza che porta a domandarsi: "Ma chi è veramente la persona che ho di fronte?" Eppure in queste situazioni la sincerità non avrebbe un grande costo: solo il rispetto della realtà, senza cedere alla voglia di renderla come piace a noi.

Esistono poi i casi in cui la sincerità è difficile: è quando il dire ciò che pensiamo o dichiarare chi siamo ha per noi  conseguenze spiacevoli: il ridicolo, l'emarginazione, talvolta il rischio.
Nel cortile di Pilato, alla serva che gli chiedeva se anche lui fosse tra gli amici di Gesù, Pietro per ben tre volte non ebbe il coraggio di dire come stavano le cose. La sincerità poteva costargli la vita; la falsità gli costò lacrime amare di pentimento.
E' difficile come cristiani dichiarare  che cosa pensiamo, sulla vita, sulla famiglia, su Dio. Oggi possiamo rischiare di essere giudicati bigotti o fuori tempo. Eppure solo per questa strada passa anche la stima che possiamo avere per noi stessi.
E infine c'è la verità che occorre saper dire per aiutare: a volte, soprattutto chi è educatore o genitore, sa che deve saper comunicare certe verità difficili, che aiutano a prendere coscienza di sé e dei propri limiti.
E poi c'è la verità che bisogna saper dire agli amici, quando sono in quelle posizioni di responsabilità nelle quali si è circondati più da piaggeria che da rispetto...
La parola limpida di chi è gratuito e non ha nulla da perdere è un modo concreto di voler bene.
Sì sì, no no! Sono parole inequivocabili nella loro chiarezza, ma anche povere ed essenziali. Chissà che un uso più sobrio della comunicazione non possa aiutare anche noi a trovare la strada della parola vera.

PARR.S.GIORGIO M. DI ZANDOBBIO. 13° anniversario morte p. Simone Vavassori




Venerdì 10 febbraio sarà il tredicesimo anniversario della morte di p. Simone.

Ciao, Simone.