giovedì 2 febbraio 2017

FILM. Io, Daniel Blake

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" dicembre 2016.
ARTICOLO: "Quanti sono i Daniel Blake?" di PAOLO MARINO CATTORINI.

"I ricchi guariscono prima?" 
L'editoriale della rivista "La Civiltà Cattolica", apparso nel novembre 2010, sollevava un interrogativo provocatorio, che è tuttora pertinente.
E' davvero equo un sistema sanitario moderno che vanta una missione assistenziale (offrire a tutti le cure dovute, anche a chi è indigente), ma che penalizza chi è sprovvisto di mezzi e potere contrattuale?
A livello sia mondiale che nazionale - continuava l'articolo - le probabilità di contrarre una malattia e di patirne i danni sono strettamente legate alla condizione socio-economica della persona, alla professione svolta, al reddito annuo, al grado di istruzione, al luogo di nascita, alla capacità di reperire le informazioni giuste e di scalare le liste di attesa, alla qualità della prevenzione offerta da un salubre stile di vita.
Eppure non siamo tutti cittadini dello stesso valore, con la medesima dignità i medesimi diritti fondamentali?
Una decente, elementare, efficace  assistenza sanitaria non è forse un'esigenza primaria e incomprimibile? Non rappresenta una pietra miliare per il tipo di cittadinanza inclusiva che vogliamo costruire?
I dibattiti  bioetici hanno fatto emergere, in proposito, differenti teorie della giustizia.
La dottrina sociale cristiana sottolinea il dovere di dare a ciascuno secondo il suo bisogno, chiedendo a tutti di partecipare alle spese secondo le loro possibilità economiche. Questo ideale di equità va costruito, conquistato, difeso.
In un discorso alle Acli del giugno 1948, papa Pio XII confermò la sua solidarietà alla lotta leale degli operai per i loro diritti: "I lavoratori (...) prima che sull'aiuto altrui, debbono contare sui propri sforzi, sulla loro propria difesa, sulla loro mutua assistenza".
Oggi, però, la nozione di bisogno sanitario è diventata imprecisa. Sfuma con il desiderio individuale (la rincorsa di una più alta qualità della vita), e viene interpretata in forme molteplici nel contesto pluralistico in cui viviamo. 
Pare inoltre velleitario, illusorio e insopportabilmente costoso promettere di sanare i bisogni di tutti, perché le risorse disponibili, su scala mondiale, sono scarse e qualcuno verrà inevitabilmente curato dopo e peggio degli altri.
Tanto vale, quindi, domandarsi sinceramente: chi curare per primo? E perché? Quali patologie meritano un intervento rapido? Quali, invece, possono aspettare? Con quali criteri fare il triage (la scelta tra pazienti) quando la lista d'attesa non può venire subito soddisfatta?
E' singolare quello che sta capitando. Da un lato regimi liberisti, come quello Usa, in cui si privilegia la capacità di pagare in contanti o tramite assicurazioni private, hanno cercato di imparare dai sistemi europei strategie distributive più egualitarie, in  modo da non penalizzare i poveri, gli svantaggiati, i soggetti non autosufficienti.
Dall'altra, sistemi di welfare (assistenza per tutti) hanno introdotto tattiche di compensazione economica per contenere la domanda di servizi (una domanda spesso irrazionalmente esosa), e per concentrare le risorse su interventi costosi, ma realmente necessari. Si incentivano gli sforzi dei lavoratori, si limita la tassazione, si assottigliano le tutele generiche. Si cerca di offrire medesime opportunità lungo l'intero ciclo biografico, e si responsabilizzano gli individui a migliorare le loro chance di "funzionamento" sociale. Ma qualcuno non ce la fa: ticket troppo alti, tempi di attesa intollerabili, tagli gestionali pesanti.
Nel film John Q di Nick Cassavetes (2002), un operaio sequestra il Pronto soccorso perché il suo bambino cardiopatico sta morendo, e la scarna assicurazione non può pagare il trapianto.
All'opposto, nella quarta stagione di House of Cards (2016), il presidente degli Stati Uniti riceve un fegato che non gli spettava: qualcuno ha manomesso gli elenchi, e ha lasciato morire un altro malato che aveva urgente priorità di cure.
Le scelte di giustizia economica hanno sempre una natura etica. Dipendono, cioè, da una certa visione della vita buona e dell'equità sociale.
Tali opzioni esigono quindi una supervisione da parte di comitati indipendenti e interdisciplinari, che verifichino la coerenza dei meccanismi decisionali e ne valutino le conseguenze: chi viene escluso? Chi viene privilegiato? E per quale ragione?
I cittadini hanno diritto di conoscere i criteri allocativi (cioè di assegnazione dei beni), di discutere le regole con cui sono redatte le liste d'attesa, di approvare o criticare la visione di giustizia che un'azienda, una clinica o un'organizzazione professionale ha deciso di privilegiare.
I responsabili politici, le istituzioni sanitarie, le associazioni di malati, i consulenti di etica hanno l'ulteriore compito di confrontare il valore  delle teorie rispetto alle storie concrete di malattia e cura.
Ken Loach, regista britannico, classe 1936, che aveva già denunciato i rischi sofferti dagli operai a causa di una brutale privatizzazione delle ferrovie nel suo film Paul, Mick e gli altri (2001), offre agli schermi la lotta del carpentiere sessantenne Daniel Blake per difendere diritti assistenziali che gli vengono negati da un sistema burocratico, impersonale, aziendalistico. Si può leggere il film come un appello diretto a cittadini sconosciuti, distratti, ignari. 
Io, Daniel Blake, cardiopatico, vedovo e senza figli, mi rivolgo a voi, spettatori di ogni rango, e vi chiedo solidarietà. Ve lo scrivo sui muri con lo spray, se occorre: non so usare il computer, ma vorrei tornare a lavorare, non mi danno un sussidio, se non mi mostro attivo, ma i medici mi hanno sconsigliato lavori di fatica. Io aiuto Kate, single e madre di due figli, costretta a peregrinare per avere una casa popolare. Noi quattro stringiamo una strana alleanza, siamo una "famiglia" di mutuo soccorso sull'orlo del precipizio. A mia volta ricevo qualche regalia, trovo qua e là persone squisite, generose. Ma non basta. E non è colpa mia, non sono uno sfaticato né un profittatore. Voglio essere trattato con dignità perché sono un cittadino anch'io. Niente di più, niente di meno.
Che cosa si può fare , in casi come quello di Blake? Con chi dobbiamo prendercela? Con il mito neocapitalista? Con l'impotenza sindacale? Con i consulenti che raccomandano di farti furbo, di farti notare se non vuoi essere escluso? Con la colpevole indifferenza dei "sani" o di chi può godere di benefici contrattuali speciali?
Daniel Blake, che vive a Newcastle, città costiera e politicamente sensibile, si sente un senza-patria, un immigrato, pur essendo inglese, perché di fatto è respinto ai margini della comunità e deve elemosinare il pane quotidiano dai banchi alimentari. Il regista adotta forme di racconto essenziali, grezze, addirittura semplicistiche, al limite del moralismo. La recitazione è quasi improvvisata, spontanea, neorealistica. La vicenda  gli interessa di più della sperimentazione stilistica. La denuncia sociale gli preme più dell'abilità di montaggio. Eppure questa cifra di "documentario" è la più adatta al messaggio lanciato quando un cittadino debole ed escluso lotta per sopravvivere, non c'è spazio per allusioni colte.
Ci si difende con un po' d' ironia e di buon senso, ma la voglia di ridere dura poco. Prevale l'indignazione per un assurdo destino di solitudine e la fame diventa la figura istintuale, impertinente e oscena di un desiderio di liberazione.
Mangiare con le mani, vergognosamente, di nascosto, il cibo di una scatoletta da supermercato, come fa Katie, corrisponde all'attesa elementare dello spettatore che avverte il bisogno di offrire aiuto, di cancellare lo squallore, di mettersi in bocca immagini di solidarietà.
La prima sequenza è al buio: sentiamo solo le risposte irritate di Dan all'ufficio di collocamento. La macchina da presa segue da vicino le vicissitudini di un povero, e ne restituisce lo sguardo attonito.
Spesso l'obiettivo fotografico sta fermo davanti agli attori e li aspetta, con una pazienza negata dalla società degli affari.
Il cinema è una visione che cerca di sopravvivere al buio, di lottare contro l'indifferenza dei guardoni, di impedire l'evasione banale.
Il cinema promette un regno a chi è ferito dall'ingiustizia e intanto lega gli spettatori a un patto di cura. Una materia incandescente, che ci scotta le retine, esce dai racconti di denuncia, e invoca aiuto.
Il cinema sul lavoro parla del lavoro del lavoro del cinema. Senza sconti. Senza maquillage. Senza effetti speciali. E' già speciale stare al mondo.

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