lunedì 11 novembre 2024

RES PUBLICA. Schiavismo all'italiana

 

FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" settembre 2024.
Articolo: "Schiavismo all'italiana" di RITANNA ARMENI.


Dobbiamo avere il coraggio di chiamarlo schiavismo, parola antica che può apparire non adatta ed esagerata per definire una condizione di lavoro nel civile e  avanzato Occidente della libertà e dei diritti. Ma è - purtroppo - la più giusta per indicare la condizione delle donne e degli uomini che lavorano in tante zone rurali del Paese. 
La loro vita è, infatti, simile a quella degli schiavi dell'Ottocento di cui abbiamo letto nei libri di storia. Ogni anno, nei mesi in cui la natura dà i suoi frutti e la canicola esplode, in Italia appaiono gli schiavi della modernità: uomini e donne, non solo nel Sud del Paese ma anche  nell'avanzato Nord del Piemonte e dell'Emilia, che lavorano con paghe che vanno da 25 a 35 euro al giorno, cioè da 2 a 4 euro all'ora. Paghe miserabili cui devono sottrarre il trasporto e l'affitto delle fetide baracche in cui dormono. 
Lavorano - questi moderni schiavi - , come i loro antichi predecessori nei campi di cotone, sotto il sole fino  dodici o quattordici ore al giorno.
Anche loro arrivano dalla Nigeria, dal Senegal, dalla Costa d'Avorio, oppure dal Bangladesh, India, Pakistan., accomunati da una speranza comune: un futuro pure per loro dove c'è lo sviluppo, la civiltà, i diritti.
Il muro di silenzio sulle loro condizioni si squarcia solo quando qualcuno di loro non ce la fa. Come Satnam Singh, che lavorava nell'agro pontino a 4 euro all'ora. Era in Italia con la moglie, speravano di farcela e di mettere da parte abbastanza soldi da poter mettere al mondo un figlio. Invece è morto dissanguato, una macchina gli ha staccato un braccio e il suo padrone non lo ha soccorso. Anche chi non sapeva, o non voleva sapere , ha appreso così, dalle immagini televisive, quel che  accade solo a qualche chilometro dalle città.
Quando l'opinione pubblica apprende  quanto avviene in tanta parte della campagna italiana c'è un moto di indignazione.  Ma quello che l'opinione pubblica, anche la migliore, tende a non prendere in considerazione è il fatto che la condizione di schiavismo cui sono  sottoposti 260 mila stagionali non è la conseguenza  di barbare eccezioni in un sistema di lavoro basato su regole di  civiltà e di sviluppo. Se così fosse non sarebbe difficile affrontare la situazione. No, il punto è che in molte aree del Paese il lavoro nelle campagne è solidamente dominato da un sistema che in quanto tale esclude  la legalità e il controllo e che si fonda proprio sulla negazione anche  dei più elementari diritti.
Il lavoro delle donne e uomini è lasciato in mano a chi comanda e tiene in nessun conto la legge. Chi dovrebbe controllare lascia intere zone sotto il dominio dei moderni schiavisti. Il cottimo, il ricatto, la paura fanno parte di un sistema produttivo, non  sono l'eccezione come amiamo pensare. Aggredire e demolire  questo sistema con controlli capillari per affermare la legalità    è evidentemente difficile ma lo schiavismo non può essere  accettato né dalla nostra coscienza né da uno Stato che si definisce democratico.

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