L'allenamento è la via del perfezionismo. E' la base di partenza per superare se stessi.
"Nessun campione si costruisce in laboratorio. A volte è accaduto, e non possiamo essere certi che non succederà ancora, anche se speriamo di no!
Ma il tempo smaschera i talenti originali da quelli costruiti: un campione nasce e si rinforza con l'allenamento. Il talento è un dono ricevuto ma questo non basta: tu ci devi lavorare sopra. Allenarsi, allora, sarà prendersi cura del talento, cercare di farlo maturare al massimo delle sue possibilità.
Mi vengono in mente coloro che corrono i 100 metri alle Olimpiadi: per quei pochissimi secondi, anni e anni di allenamento, senza le luci accese.
Ogni tanto leggo di qualche grande campione che è il primo ad arrivare all'allenamento e l'ultimo ad andarsene: è la testimonianza che la forza di volontà è più forte dell'abilità.
Qui lo sport viaggia di pari passo con la vita: la bellezza, qualunque sia la sua declinazione, è sempre il frutto di una fiammella da tenere accesa giorno dopo giorno".
C'è un proverbio arabo che dice: "Non arrenderti. Rischieresti di farlo un'ora prima del miracolo". Proverbio che fede e sport condividono assieme.
"La tua resa è il sogno del tuo avversario: arrenderti è lasciargli la vittoria. E' sempre un rischio: "E se avessi resistito un attimo in più?" Continuerai a dirti per chissà quante volte vedendo com'è andata a finire. Poi è anche vero che ci sono giorni in cui è meglio continuare a lottare, altri in cui è più saggio lasciare perdere. La vita assomiglia a una guerra: si può perdere una battaglia, ma la guerra quella no! Un uomo non muore quando è sconfitto: muore quando si arrende, quando cessa di combattere. I poveri, da questo punto di vista, sono un esempio spettacolare di che cosa voglia dire non arrendersi. Nemmeno di fronte all'evidenza dell'indifferenza: continuano a combattere per difendere la loro vita".
Il motto dell'Olimpiade è "Citius, Altius, Fortius". Vale anche per le nostre vite di tutti i giorni?
"Il motto è bellissimo: "Più veloce! Più in alto! Più forte!" Lo attribuiscono al barone Pierre De Coubertin, ma è stato ideato da un predicatore domenicano, Henri Didon. Assieme ai cinque cerchi e alla fiamma olimpica, è uno dei simboli dei Giochi. Non è un invito alla supremazia di una squadra sull'altra, tanto meno una sorta di incitazione al nazionalismo. E' un'esortazione per gli atleti, perché tendano a lavorare su se stessi, superando in maniera onesta, i loro limiti per costruire qualcosa di grande, senza lasciarsi bloccare da essi. E' divenuta una filosofia di vita: l'invito a non accettare che nessuno firmi la vita per noi".
Le prossime Olimpiadi si svolgeranno in Giappone, a Tokyo. Una delle massime giapponesi può essere tradotta così: "Cadi sette volte, rialzati otto". Lei ha visitato il Giappone: che ricordo porta con sé?
"Per due volte ho visitato il Giappone. In questi miei due viaggi ho incontrato una terra meravigliosa, ricca di tradizioni, di fede, di memoria. Alcuni anni prima di intraprendere il secondo viaggio in Giappone, avevo visto una fotografia che mi aveva colpito molto: quella di un bimbo che sta portando in spalla il fratellino morto al crematorio (la foto è del fotografo americano Joe O'Donnell. Il Papa ha incontrato il figlio nel suo secondo viaggio, ndr). L'ho fatta stampare e ho fatto scrivere sopra una frase: "Il frutto della guerra". In quei mesi, alle persone che incontravo, consegnavo loro la fotografia per non disperdere la memoria dei grandi fallimenti dell'umanità.
Quando, nel mio secondo viaggio, mi sono recato, come pellegrino di pace, a Nagasaki e Hiroshima, ho sostato in silenzio di fronte a quella pagina di storia: dei sogni di tantissimi è rimasta solo ombra e silenzio. Gente diversissima tra loro, unita da un tragico destino. Ho visto, però, anche la speranza in quell'istante: negli occhi di coloro che, sopravvissuti a quella barbarie, hanno trovato il coraggio di continuare a vivere. Nonostante tutto. Con tutto il cuore auguro che le prossime Olimpiadi trovino l'ispirazione in quegli sguardi che non si sono mai arresi".
Delle Olimpiadi sono parte integrante le Paralimpiadi, forse una delle forme più alte di eguaglianza, dignità, rispetto. Lei, mesi fa, attraverso le pagine del nostro giornale ha rivolto un pensiero a Alex Zanardi. E' parso chiarissimo il suo intento: parlare a lui per parlare a tutto quell'immenso popolo che si ritrova in quella storia personale.
"Quando vedo di che cosa sono capaci certi atleti, che portano impressa nel loro fisico qualche disabilità, rimango sbalordito dalla forza della vita. Dello sport mi piace l'idea di inclusione, quei cinque cerchi che si inanellano tra loro finendo per sovrapporsi: è un'immagine splendida di come potrebbe essere il mondo. Il movimento paraolimpico è preziosissimo: non solo per includere tutti, ma anche perché è l'occasione per raccontare e dare diritto di cittadinanza nei media a storie di uomini e donne che hanno fatto della disabilità la loro arma di riscatto. Quando vedo o leggo di qualche loro impresa, penso che il limite non sia dentro di loro ma soltanto negli occhi di chi li guarda. Sono storie che fanno nascere storie, quando tutti pensano che non ci sia più nessuna storia da raccontare".
Lei è un grande appassionato di calcio: da piccolo tifava per il San Lorenzo. Lo sport, però, non è solo calcio.
"Sappiamo che in ogni angolo del mondo, anche in quello più nascosto e più povero, basta una palla e tutto comincia a popolarsi e a sorridere. Forse per questo il calcio fa un po' la parte del leone. Un po' come accade a casa tra fratelli: ce n'è sempre uno che pensa di valere più degli altri! Ma certo il mondo dello sport è una vera e propria costellazione con tante stelle. Io ho giocato anche a basket e mi sta molto simpatico, ad esempio, il rugby: pur essendo uno sport da duri, non è mai violento. La lealtà e il rispetto che ci sono in questo sport spesso vengono presi come modello di comportamento. Penso al "terzo tempo" dopo la partita: tutti i giocatori delle due squadre si riuniscono anche solo per un saluto, una stretta di mano. E' così che dovrebbe essere: dare l'anima quando si gioca ma, terminata la gara, avere il coraggio di stringere la mano all'avversario. Non è una guerra tra nemici, solo un'occasione di competizione tra avversari nel gioco. Quelli che vengono considerati sport minori, certe volte, potrebbero fare delle "lezioni di ripetizione" al signor-calcio".
continua
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