FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" febbraio 2024.
Articolo: "Morire sul lavoro" di RITANNA ARMENI.
Quattro italiani escono ogni giorno da casa per recarsi al lavoro e non vi fanno ricorso.
"La nostra guerra persa" titolava qualche settimana fa l'"Avvenire", riferendo i dati dei morti sul lavoro nell'anno appena trascorso.
"Morire sul lavoro è uno scandalo inaccettabile per un Paese civile" aveva affermato il presidente della Repubblica.
Complessivamente, secondo i dati Inail, le vittime di "incidenti sul lavoro" sono circa mille all'anno. Ma, se si tiene conto anche dei lavoratori irregolari, di coloro, cioè, che non sono assicurati - come stimano altri istituti di ricerca, tra cui l'Osservatorio di Bologna e l'Osservatorio Vega di Mestre - nel 2023 diventano ben 1.467.
Tra questi c'è una percentuale altissima di stranieri . Più del doppio rispetto al lavoratori italiani. Non è un caso. Sono gli immigrati, infatti, a essere impiegati in settori più a rischio di infortuni mortali. E sono loro i meno formati e informati sulle misure di sicurezza. Tante morti. Troppe. Che inducono gli osservatori a usare il termine di "guerra", una parola nuova sulla quale vale la pena di riflettere.
In epoche diverse per lo stesso fenomeno si usavano altre parole. Nel dopoguerra, le morti sul lavoro erano definite "bianche" quasi a indicare una loro ineluttabilità nel contesto dello sviluppo economico.
Le tragedie sui luoghi di produzione, nella cultura dell'Italia del boom, erano ritenute quasi una fatalità da accettare.
Dagli anni Settanta, quelli delle grandi lotte operaie e del controllo sindacale, le morti sul lavoro sono state definite spesso "omicidi". Un termine volutamente forte. Per alcuni "eccessivo". Che una legge, ancora oggi in discussione, vuole formalizzare. Ma il cui senso è chiaro.
E' l'organizzazione del lavoro, l'interesse delle imprese, la gerarchia aziendale a uccidere.
I morti dell'edilizia, dei grandi stabilimenti siderurgici, delle linee di montaggio delle industrie meccaniche non sono che una conseguenza di uno sfruttamento che non tiene conto né della salute né della incolumità di chi lavora.
Ora si parla di guerra. Guerra sul lavoro. E ancora una volta le parole sono indicative.
La guerra evoca ostilità, violenza. Mostra un conflitto esplicito in cui è inevitabile la presenza di vincitori e vinti. In cui le leggi della convivenza vengono soppresse e la necessità di lavoro per alcuni diventa sfruttamento illimitato, rischio e, troppo spesso, morte. Proprio come avviene in guerra, sono i più deboli - gli immigrati in questo caso - a soccombere.
Ma è davvero, come molti sembrano pensare, una guerra già persa? Forse no, se sapremo ancora indignarci. Se la società civile saprà fare la sua parte. Se le organizzazioni dei lavoratori riusciranno a imporre l'obiettivo della " prevenzione". Se il legislatore saprà varare una legge che indichi con più chiarezza responsabilità e colpe. Dobbiamo sperarlo.
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