Quali sono, secondo lei, gli aspetti che accomunano l'avventura dello sport con quella dello spirito?
"Entrambi, sia lo sport che lo spirito, hanno delle "parole amiche" in comune: penso a temi come passione, metodo, applicazione, fantasia, costanza. Anche dimensioni più alte: l'idea della fascinazione, del piacere, della soddisfazione. Tutte queste parole, poi, aiutano a capire un principio che unisce l'esercizio spirituale a quello fisico: l'dea, che l'uomo, esercitandosi, possa migliorare, diventare più uomo. Lo si fa, questo esercizio, partendo dalla conoscenza di sé, dei propri limiti per poi spingersi verso un "oltre" capace di dare un significato alla fatica".
Un sano agonismo può aiutare anche lo spirito a maturare?
"Mi vengono in mente due passaggi scritti da san Paolo nelle sue lettere. Il primo: "Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo" (1 Cor 9,24). E' un bellissimo invito a mettersi in gioco, per non guardare il mondo dalla finestra di casa. Il secondo passaggio che vorrei ricordare è quando Paolo, parlando all'amico Filemone, è come se gli confidasse il suo segreto: "Corro perché conquistato" (Fil 3,12). Nessun atleta corre tanto per correre: c'è sempre una qualche bellezza che, come una calamita, attrae a sé chi intraprende una sfida. S'inizia sempre perché c'è qualcosa che ci affascina".
Il cuore è al centro dell'attività sportiva come dell'esperienza religiosa. Tenerlo "allenato" è il segreto per non disperdere il talento?
"Tenere ordinato il cuore è il segreto per qualsiasi vittoria, non solo quella sportiva: il salmista, infatti, chiede a Dio: "Sia il mio cuore integro" (Sal 119,80). Se guardiamo alla storia del talento, ci accorgiamo che tanta gente di talento si è perduta proprio a causa del disordine. Un cuore ordinato è un cuore felice, in stato di grazia, pronto alla sfida. Penso che se chiedessimo a qualche sportivo il segreto ultimo delle sue vittorie, più di qualcuno ci direbbe che vince perché è felice. La felicità, dunque, è la conseguenza di un cuore ordinato. Una felicità da condividere perché se la tengo per me resta un seme, se invece la condivido può diventare un fiore".
Ci sono tante storie di campioni che ammettono d'aver iniziato la loro avventura sportiva all'ombra di un campanile, nel "campetto dell'oratorio" di una chiesa di centro città o di estrema periferia.
"La Chiesa ha sempre nutrito grande interesse verso il mondo dello sport. Possiamo dire che nello sport le comunità cristiane hanno individuato una delle grammatiche più comprensibili per parlare ai giovani. Pensiamo a don Bosco e agli oratori salesiani ma pensiamo anche a tutte le parrocchie del mondo, anche e soprattutto le più povere, nelle quali c'è sempre un campetto a disposizione per giocare e fare sport. Attraverso la pratica sportiva si incoraggia un giovane a dare il meglio di sé, a porsi un obiettivo da raggiungere, a non scoraggiarsi, a collaborare in un gruppo. E' un'occasione bellissima per condividere il piacere della vittoria, l'amarezza di una sconfitta, per mettersi insieme e dare il meglio di sé".
Lei, come gesuita, è figlio spirituale e culturale di sant'Ignazio di Loyola, il "campione" degli Esercizi Spirituali. "Esercizio" è anche un termine sportivo, è sinonimo di allenamento. C'è una qualche relazione tra lo sport e gli esercizi di sant'Ignazio?
"Quando sant'Ignazio di Loyola ha scritto gli Esercizi Spirituali l'ha fatto ripensando alla sua storia passata di soldato, fatta di esercizi, addestramenti, allenamenti. Intuisce che anche lo spirito, come il corpo, va allenato. Esercitarsi, poi, richiede una disciplina: gli esercizi sono buoni maestri. Guillaume de Saint-Thierry, un monaco belga vissuto nel XII secolo, dice che "la volontà genera la pratica, la pratica genera l'esercizio e l'esercizio procura le forze per qualsiasi lavoro". L'esercizio alla bontà, alla bellezza, alla verità sono delle occasioni in cui l'uomo può scoprire dentro di sè delle risorse inaspettate. Per poi giocarsele".
Qual è il tipo di sportivo che apprezza di più?
"La ringrazio per non farmi fare nomi propri: é sgradevole scegliere uno a scapito di altri. Apprezzo, però, chi è cosciente della responsabilità del suo talento, a qualunque sport o disciplina appartenga. Il "campione" diventa, per forza di cose, un modello d'ispirazione per altri, una sorta di musa ispiratrice, un punto di riferimento. E' importante che gli sportivi e i campioni abbiano la consapevolezza di quanto una loro parola, un loro atteggiamento possa incidere su migliaia di persone. Ci sono aspetti molto belli: penso, e colgo l'occasione per ringraziarli, ai ragazzi della Nazionale Italiana di calcio che ogni anno con il loro Ct passano, letto per letto, a trovare i bambini nell'ospedale del Papa (il Bambino Gesù, ndr), anzi tutto nel reparto oncologico. Questo succede anche per altri ospedali e in tante nazioni. Un modo per realizzare i sogni dei piccoli che soffrono. Quando, però, il campione dimentica questa dimensione, perde il bello dell'essere tale, l'occasione per fare in modo che chi lo prende come modello possa migliorarsi, crescere, diventare anche lui campione. Ai campioni auguro di imparare una virtù preziosissima: la temperanza, ovverosia la capacità di non perdere il senso della misura. Solo così potranno essere testimoni dei grandi valori come l'onestà, la correttezza, la dedizione. Non sono cose da poco".
Il calcio, anzi lo sport, hanno recentemente pianto la scomparsa di Maradona, considerato da molti il più grande calciatore di sempre. Che cosa ha rappresentato per la vostra Argentina?
"Ho incontrato Diego Armando Maradona in occasione di una partita per la Pace nel 2014: ricordo con piacere tutto quello che Diego ha fatto per la Scholas Occurrentes, la Fondazione che si occupa dei bisognosi in tutto il mondo.
In campo è stato un poeta, un grande campione che ha regalato gioia a milioni di persone, in Argentina come a Napoli. Era anche un uomo molto fragile. Ho un ricordo personale legato al Campionato del Mondo del 1986, quello che l'Argentina vinse proprio grazie a Maradona. Mi trovavo a Francoforte, era un momento di difficoltà per me, stavo studiando la lingua e raccogliendo materiale per la mia tesi. Non avevo potuto vedere la finale del Mondiale e seppi soltanto il giorno dopo del successo dell'Argentina sulla Germania, quando un ragazzo giapponese scrisse sulla lavagna Viva l'Argentina durante una lezione di tedesco. La ricordo, personalmente, come la vittoria della solitudine perché non avevo nessuno con il quale condividere la gioia di quella vittoria sportiva: la solitudine ti fa sentire solo, mentre ciò che rende bella la gioia è poterla condividere.
Quando mi è stato detto della morte di Maradona, ho pregato per lui e ho fatto giungere alla famiglia un rosario con qualche parola personale di conforto".
La Città del Vaticano ha una sua squadra di atletica leggera. C'è, poi, la "Clericus Cup", una sorta di campionato per gli studenti degli atenei pontifici. Non è soltanto sport.
"Evangelizzare significa testimoniare, nella vita personale e comunitaria, la vita di Dio in noi, quella che ci è stata donata nel Battesimo. Non esistono strategie, non ha alcun senso un marketing della fede: solo quando un uomo o una donna vede un uomo o una donna vivere come Gesù, allora potrà essere affascinato e potrà iniziare a prendere seriamente la proposta del Vangelo. Si evangelizza con il fascino della propria vita che ha il gusto e il sapore delle beatitudini.
Le squadre di atletica leggera e la Clericus Cup trovano il senso della loro presenza in Vaticano proprio per testimoniare uno stile evangelico nello sport. E' un modo anche per fare comunità. Penso alla varietà degli atleti che provengono da amministrazioni differenti: guardie svizzere, giardinieri, farmacisti, dipendenti dei Musei Vaticani, delle Ville Pontificie, preti e forse anche qualche monsignore. Una Chiesa in uscita... sui campi sportivi!"
continua