mercoledì 27 gennaio 2021

PAPA FRANCESCO. Intervista sullo sport. 2

 

Da bambino lei ha raccontato che andava allo stadio con i suoi genitori a vedere le partite di calcio.

"Ricordo molto bene e con piacere quando, da bambino, con la mia famiglia andavamo allo stadio, El Gasometro. Ho memoria, in modo particolare, del campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse. Ricordo quelle giornate passate a vedere i calciatori giocare e la felicità di noi bambini quando tornavamo a casa: la gioia, la felicità sul volto, l'adrenalina nel sangue. Poi  ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo: il cuoio costava e noi eravamo poveri, la gomma non era ancora così abituale, ma a noi bastava una palla di stracci per divertirci e fare, quasi, dei miracoli giocando nella piazzetta vicino a casa. Io non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un "pata dura", letteralmente gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta. Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte... E ho giocato anche a basket, mi piaceva il basket perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo".

Lo sport  è un momento di festa e celebrazione. Una sorta di liturgia, di ritualità, di appartenenza. Non per nulla si parla di "fede sportiva".

"Lo sport è tutto ciò che abbiamo detto: fatica, motivazione, sviluppo della società, assimilazione delle regole. E poi è divertimento: penso alle coreografie negli stadi di calcio, alle scritte per terra quando passano i ciclisti, agli striscioni d'incitamento quando si svolge una competizione. Trombe, razzi, tamburi: è come se sparisse tutto, il mondo fosse appeso a quell'istante. Lo sport, quando è vissuto bene, è una celebrazione: ci si ritrova, si gioisce, si piange, si sente di "appartenere" ad una squadra. "Appartenere" è ammettere che da soli non è così bello vivere, esultare, fare festa. E' curioso, poi, che qualcuno leghi la memoria di qualcosa con lo sport: "L'anno in cui la squadra ha vinto lo scudetto, in cui il tal campione ha vinto la tal competizione. L'anno delle Olimpiadi, dei Mondiali". In qualche modo lo sport è esperienza del popolo e delle sue passioni, segna la memoria personale e collettiva. Forse sono proprio questi elementi che ci autorizzano a parlare di "fede sportiva"".

C'è una pagina dello sport, o un avvenimento, che lei ricorda con piacere?

"Non ho una così grande conoscenza in materia, ma le posso dire che seguo con interesse tutte quelle storie di sport che non sono fini a se stesse, ma provano a lasciare il mondo un po' migliore di come lo trovano. Quando, durante un viaggio apostolico, sono stato allo Yad Vashem a Gerusalemme, ricordo che mi raccontarono di Gino Bartali, il leggendario ciclista che, reclutato dal cardinale Elia Dalla Costa, con la scusa di allenarsi in bicicletta, partiva da Firenze alla volta di Assisi e faceva ritorno con decine di documenti falsi nascosti nel telaio della bici che servivano per far fuggire e quindi salvare gli ebrei. Pedalava per centinaia di chilometri ogni giorno sapendo che, qualora lo avessero fermato, sarebbe stata la sua fine. Così facendo offrì una vita nuova a intere famiglie perseguitate dai nazisti, nascondendo qualcuno di loro anche a casa sua. Si dice che aiutò circa ottocento ebrei, con le loro famiglie, a salvarsi durante le barbarie a cui vennero sottoposti. Diceva che il bene si fa e non si dice, se no che bene è? Lo Yad Vashem lo considera "Giusto tra le nazioni", riconoscendo il suo impegno. Ecco la storia di uno sportivo che ha lasciato il mondo un po' meglio di come lo ha trovato".

Della dinamica sportiva, come del fatto di vivere, fanno parte la sconfitta e la vittoria.

"Vincere e perdere sono due verbi che sembrano opporsi tra loro: a tutti piace vincere e a nessuno piace perdere. La vittoria contiene un brivido che è persino difficile da descrivere, ma anche la sconfitta ha qualcosa di meraviglioso. Per chi è abituato a vincere, la tentazione di sentirsi invincibili è forte: la vittoria, a volte, può rendere arroganti e condurre a pensarsi arrivati. La sconfitta, invece, favorisce la meditazione: ci si chiede il perché della sconfitta, si fa un esame di coscienza, si analizza il lavoro fatto. Ecco perché, da certe sconfitte, nascono delle bellissime vittorie: perché, individuato lo sbaglio, si accende la sete di riscatto. Mi verrebbe da dire che chi vince non sa che cosa si perde. Non è solo un gioco di parole, chiedetelo ai poveri".

Dietro ogni grande campione c'è un allenatore. Allenare è un po' come educare.

"In qualche modo sì. Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po' visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l'atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore, è colui che sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia".


                                       continua

                                                                                          





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