FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" aprile 2019.
Articolo: "Impariamo dagli atleti" di ROBERTA VILLA.
Le maratone sono un ottimo modello di studio per capire quali siano le strategie migliori da adottare per gestire il dolore, anche nella malattia.
C'è un dolore "buono", e i medici lo stanno studiando per aiutare gli ammalati a gestire meglio quello "meno buono" che li affligge.
"Buono" è il dolore che fa vincere le gare e le partite, quello che sperimentano tutti gli sportivi durante la preparazione atletica e durante le competizioni: "No pain, no gain", "senza dolore non si ottengono risultati" dice uno slogan caro a tutti gli allenatori.
Certo, occorre distinguere il dolore fisiologico, che passa da solo, dovuto allo sforzo e all'accumulo di acido lattico nei muscoli, da quello patologico, per esempio conseguente a lesioni osteoarticolari o muscolari che richiedono riposo o trattamento.
Gli studi condotti su questa popolazione "scelta" dicono che gli atleti conoscono meglio degli altri il proprio corpo, tanto da saper ben distinguere le due situazioni.
E tuttavia le cronache sportive riportano spesso degli aneddoti. Come quelli del giocatore di football americano Emmit Smith che nel 1993 corse 165 eroiche iarde con la spalla lussata penzolante lungo il corpo. O del rugbista italiano Andrea Lo Cicero che, qualche anno dopo, continuò imperterrito a giocare con sei costole rotte e addirittura un polmone perforato.
Sentono meno il dolore? Una ricerca condotta qualche anno fa da Jonas Tesarz dell'Università di Heidelberg in Germania, ha dimostrato che gli sportivi non hanno sviluppato una soglia del dolore più alta. Sentono lo stimolo doloroso esattamente come gli altri. Quello che cambia è la capacità di tollerarlo, tanto che, per qualcuno, proprio su questo si gioca il successo in molte discipline: la vittoria consiste, in fondo, solo nel resistere più degli altri.
I campioni in questo campo sono i maratoneti, perché in fondo a una maratona non si può arrivare senza dolore. Ed è un dolore che ci si porta dietro da mesi e mesi di allenamento, in gran parte dedicato proprio a gestire e a ignorare questo segnale che l'organismo manda per dire: "Fermati, fermati".
Entrano in gioco varie tecniche, anche psicologiche, che ognuno adatta alle proprie esigenze: qualcuno preferisce distrarsi, concentrandosi sul paesaggio o cantandosi canzoni, altri puntano sull'introspezione.
Ancora più dura è la prova degli ultramaratoneti, che corrono distanze superiori ai 42,195 chilometri della maratona, spesso intorno ai 100 chilometri, talvolta in condizioni ambientali proibitive come nei deserti del circuito Racing the Planet.
A oltre 200 atleti partecipanti all'edizione del 2016 un gruppo di ricercatori statunitensi ha chiesto informazioni sul livello di sforzo, l'entità del dolore, la sua interferenza con l'attività e le strategie adottate per affrontarlo, dimostrando che in questi "supereroi" erano prevalenti approcci di adattamento che consistevano nell'ignorare il dolore, considerarlo una sfida o non consentirgli di disturbarli.
L'idea è che questi suggerimenti possano aiutare anche i portatori di malattie croniche. Ovvio che c'è una grossa differenza. Non è cosa da poco sapere che all'arrivo, o al più nei giorni successivi, il tormento comunque finirà.
Anzi, uno studio condotto su una sessantina di maratoneti e pubblicato l'anno scorso sula rivista scientifica "Memory" suggerisce che la soddisfazione per essere arrivati al traguardo è in grado addirittura di spazzare via, o ridimensionare per settimane, il ricordo della sofferenza sopportata.
Una prospettiva che, purtroppo, non riguarda molti ammalati, i quali però possono comunque trarre vantaggio da un approccio positivo alla loro situazione, sapendo che maggiore è il tempo trascorso concentrati sulla loro condizione, più difficile sarà sopportarla.
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