giovedì 19 ottobre 2017

GIOVANI E RAGAZZI. Il bullismo


FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" luglio/agosto 2017.
Articolo: "L'intelligenza non basta" di ADA FONZI, professore emerito psicologia dello sviluppo.

In varie occasioni mi sono soffermata sul fenomeno del bullismo partendo dagli studi iniziati per la prima volta in Italia alla fine degli anni '90 da un gruppo di ricercatori dell'Università di Firenze, che ne sottolineavano la consistenza inquietante nel nostro Paese.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, gli studi si sono moltiplicati, sono state messe a punto nuove tecniche d'intervento, ma purtroppo il fenomeno continua a essere rilevante, complicato oggi dal suo diffondersi attraverso la rete - il cyberbullismo - che, con l'avallo dell'anonimato, costituisce una cassa di risonanza impressionante.
Qui vorrei soffermarmi su un aspetto del fenomeno di cui forse non si parla abbastanza: chi sono i bulli? Quali caratteristiche hanno? Quali sono i fattori che risultano condizionanti: la situazione socio-economica, l'educazione familiare o le caratteristiche di personalità?
Le ricerche in proposito sono di notevole interesse. Per quanto riguarda la classe sociale, i risultati sono piuttosto controversi: se in alcuni casi si è riscontrato un rapporto tra bullismo e svantaggio sociale, in altri tale rapporto non sembra esistere.
Divergenti anche i risultati sul peso delle relazioni familiari e del clima educativo: un'educazione permissiva è stata considerata spesso una concausa del comportamento aggressivo dei figli, ma talvolta invece sono stati indicati responsabili l'eccessiva severità e l'autoritarismo.
Per quanto riguarda le caratteristiche personali, i bulli non hanno in apparenza nulla che li contraddistingua in senso negativo. Le loro capacità intellettive sono alla pari di quelle dei coetanei, qualche volta addirittura superiori alla media e orientate verso il machiavellismo, la tendenza secondo la quale "il fine giustifica i mezzi". Nella norma anche le doti comunicative e la capacità di stabilire relazioni amicali.
Un unico elemento li penalizza pesantemente, sia nei confronti delle vittime che dei coetanei in genere: il disimpegno morale. Si tratta di quel meccanismo evidenziato dallo psicologo statunitense Albert Bandura, che consente la legittimazione del proprio comportamento prepotente.
In ognuno di noi esiste un sistema di meccanismi di autoregolazione e di sanzioni interne, quali il senso di colpa e l'autoriprovazione, che previene e ostacola il comportamento amorale. 
Questo sistema va in crisi, si allenta o viene disattivato quando entrano in funzione altri meccanismi psicologici che hanno l'effetto di neutralizzare le norme etiche. Bandura ne elenca otto, ma qui mi limiterò a citare i due che si adattano assai bene al bullo.
Etichettamento eufemistico: il soggetto cambia le carte in tavola per giustificare le sue azioni (ad esempio: "Dare pacche e spinte non è altro che fare giochi un po' agitati"); deumanizzazione della vittima: il soggetto giustifica il suo comportamento attribuendone la colpa al modo di essere della vittima (ad esempio: "E' bene maltrattare chi si comporta come un essere schifoso").
Ecco quindi che il ragazzo, già di per sé irrequieto e impulsivo, trova nell'attivazione di alcuni meccanismi di disimpegno morale l'avallo per le sue prepotenze. Nessun senso di colpa dopo aver compiuto un atto aggressivo, anzi la tendenza a ricercare attestati di approvazione.
Insomma, l'intelligenza non basta a evitare di cadere in comportamenti riprovevoli, se non è supportata da capacità empatiche e da una coscienza morale.
Credo che gli adulti debbano stare all'erta e rendersi conto che qualsiasi progetto di intervento per la riduzione del fenomeno delle prepotenze debba partire dalla consapevolezza dell'importanza delle norme morali e porsi come obiettivo quello di agevolare nelle nuove generazioni la formazione di un ethos antivessatorio e autenticamente democratico.


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