giovedì 9 giugno 2016

VIVERE INSIEME. Fidarsi o non fidarsi


FONTE: Messaggero di Sant'Antonio aprile 2016.
Articolo "Fidarsi o non fidarsi" di Ada Fonzi (professore emerito psicologia dello sviluppo)

Fidarsi o non fidarsi?

In questi ultimi tempi, in seguito alla crisi economica. e forse non soltanto economica ma anche valoriale, il panorama degli atti contro la comunità è interamente cambiato. I mezzi di comunicazione ci hanno informato che, accanto a una diminuzione degli omicidi e delle grandi rapine, si registra un aumento dei furti, degli scippi e di altre aggressioni di relativa scarsa entità, che provocano però malessere, e diffidenza diffusi.  Se l'avvenimento rilevante ci colpisce ma ci appare distante quando non ci coinvolge più o  meno direttamente, lo scippo perpetrato nel nostro quartiere, che ha colpito la nostra vicina di casa, ci coinvolge quasi in prima persona e ci spinge ad attivare misure difensive spesso sproporzionate.
Per quanto mi riguarda, pur essendo incappata parecchie volte nella mia lunga vita in incidenti del genere, non sono mai riuscita a rassegnarmi all'idea che i ragazzi che mi accostano a bordo del motorino, possano avere l'intenzione di approfittarsi della mia borsetta. E tutte le volte che episodi simili mi sono capitati, dopo l'iniziale sconcerto ho subito pensato che si trattasse di un'eccezione, che in realtà gli essere umani sono fatti per aiutare gli altri e non per danneggiarli.

Il problema richiede però una riflessione sui metodi educativi a cui siamo stati tutti sottoposti fin dall'inizio della vita, soprattutto nell'ambito familiare. Che cosa si insegna ai bambini circa i rapporti con il mondo esterno? A fidarsi di tutti o a non fidarsi di nessuno? O a fidarsi soltanto di chi è conosciuto e non può far loro del male? O ancora a correre il rischio di essere delusi pur di sperimentare nuovi rapporti? Mi piace ogni tanto sostare in un piccolo giardino e osservare il comportamento di bambini e genitori.
Di recente ho assistito a una scena esemplare. Un bambino piccolo, di non più di tre anni, correva intorno a una fontana stringendo a sé un camioncino colorato, sotto gli occhi della giovane madre seduta su una panchina. Il bambino a un tratto, volendosi arrampicare sulla scaletta di uno scivolo e sentendosi impacciato dal giocattolo, lo ha deposto per terra un po' distante dalla madre.Questa, messasi subito in allarme poiché aveva avvistato la marcia di avvicinamento di un altro bambino, ha immediatamente richiamato all'ordine il piccolo: "Stefano, guarda che così te lo rubano!". Mi ha fatto pena Stefano, così piccolo e già così gravato di incombenze per difendere la sua proprietà. Come sarebbe stato bello e rassicurante che la madre avesse lasciato l'altro bambino godere del giocattolo e fosse intervenuta solo se Stefano avesse mostrato il desiderio di riappropriarsene. L'optimum sarebbe stato poi se avesse incoraggiato Stefano a condividere il camioncino con il nuovo amichetto: "Perché non giocate insieme?". Forse era pretendere troppo.

Gli studi psicologici ci hanno ormai chiarito che i comportamenti altruistici sono addirittura innati. Sono iscritti nel nostro Dna e compaiono in età assai precoci. Ciò non esclude che possano esistere altri comportamenti di tipo egoistico, anche questi di natura innata, che rispondono al bisogno di autoaffermazione e di possesso. Si tratta di due facce della stessa medaglia che rispecchiano la complessità della natura umana, dal cui equilibrio dipenderà il nostro star bene al mondo. In entrambe le situazioni sono importanti gli interventi educativi. Per quanto riguarda l'altruismo, se alcuni circuiti non vengono attivati in certi momenti critici, c'è il rischio che non possano più entrare in funzione e che il bambino resti imprigionato nel suo isolamento. Per l'egoismo, l'educazione dovrà incaricarsi di mettere in atto strategie che limitino l'attivazione di circuiti incontrollati. Che fatica per i genitori! Ma ne valeva la pena.


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