L'anno scorso ho interrotto la narrazione al post "SERGIO E IL CALCIO. L'allenatore. Ricordi".
La riprendo, perché trenta anni fa, nel 1994, è successo un fatto importante per lo sport zandobbiese.
"Andiamo a casa?" è la voce di Loris, apparso sulla porta con la borsa a tracolla, che mi riporta alla realtà.
Nei tre anni di permanenza a Trescore mi sono affezionato ai ragazzi che alleno e li tratto come figli.
Se un ragazzo manca all'allenamento, gli telefono per sapere il motivo dell'assenza. Non tutti vivono in famiglie serene come la mia.
Cristian ha i genitori divorziati e vive con la mamma, che lavora in un bar fino a notte inoltrata. Il ragazzo ha abbandonato gli studi dopo aver terminato la terza media e lavora come apprendista in un'officina meccanica. Si sta costruendo un carattere malinconico, facile allo scoramento. Molte volte , ritornato dal lavoro, si abbandona sul divano davanti alla televisione, incapace di prendere la borsa per recarsi all'allenamento.
Di ritorno dal campo gli telefono e il ragazzo bofonchia una scusa per giustificarsi e promette che non mancherà al successivo allenamento.
Di ritorno dal campo gli telefono e il ragazzo bofonchia una scusa per giustificarsi e promette che non mancherà al successivo allenamento.
Invece Oscar ha perso i genitori poco anni fa, entrambi stroncati dalla malattia nel giro di pochi mesi. Vive con una sorella sposata, ma la loro mancanza nel momento topico dello sviluppo influisce sul carattere molto aggressivo. Basta un piccolo fallo di gioco subito in allenamento o nelle partite di campionato perché dia in escandescenze, provocando risse, che l'arbitro punisce con il cartellino giallo o addirittura con quello rosso. E' ostinato e raramente recede dai suoi propositi. Così ha abbandonato la scuola media superiore al secondo giorno di apertura dell'anno scolastico e niente lo ha convinto a riprendere in mano i libri. Quindicenne ha ingrossato le fila dei lavoratori.
Mi sento impotente davanti a questi episodi e nel mio intimo me la prendo con il mondo degli adulti, che hanno costruito una società dove i più forti avanzano, lasciando invece andare alla deriva i più bisognosi.
Mi macero l'animo, non sentendomi all'altezza del compito. Cerco aiuto nei libri di scuola dei miei figli e nelle riviste, alla ricerca di argomenti di psicologia giovanile, ma non trovo niente che faccia al mio caso. Allora studio nuovi esercizi e giochi per rendere più appetibile l'allenamento, affinché i ragazzi si sentano attratti dal campo di gioco.
La tattica funziona con quasi tutti, ma durante il secondo anno Cristian, Oscar e Beppe abbandonano il calcio. Troppo complessi sono i loro problemi.
Beppe è un ragazzo con un bisogno estremo di libertà. Anch'egli ha abbandonato lo studio dopo la terza media e in pochi mesi ha cambiato tre mestieri. In perenne conflitto con il padre, che cerca di tenerlo a freno, manifesta la sua insofferenza sia in allenamento, litigando con i compagni, sia in partita, protestando con l'arbitro. Sarebbe un buon attaccante, avendo il fiuto del gol e un grande coraggio, ma la sirena lo attrae con voce suadente sui luoghi di divertimento fino a notte fonda.
Io cerco, telefonando loro od incontrandoli per il paese, di riportarli allo sport, ma le mie sollecitazioni non approdano a nulla.
Nel secondo e terzo anno la squadra disputa il campionato provinciale FIGC "allievi eccellenza" a 11 e deve quindi misurarsi spesso contro avversari molto forti e i risultati negativi sono all'ordine del giorno.
Durante la colazione della domenica mattina, poche ore prima della partita, l'angoscia mi invade l'animo e provo un fortissimo desiderio di fuga. Sono attimi che provocano un vuoto allo stomaco e un senso di nausea. Poi la speranza di una vittoria mi fa superare il momento critico, ma la tensione nervosa mi accompagna in panchina.
All'inizio della partita sto in piedi, appoggiato ad una estremità della panchina, ma con l'aumentare delle difficoltà che la squadra incontra in campo il mio corpo produce, produce adrenalina. Allora incomincio ad andare avanti e indietro al bordo del campo, imprecando a bassa voce. Mi sento impotente davanti alla superiorità avversaria e vorrei essere in campo ad aiutare i miei ragazzi, nonostante i miei capelli brizzolati.
Quando un nostro attaccante sbaglia un facile gol, mi volto verso la rete di recinzione, sferrandole un calcio. E' un modo meno rischioso di scaricarsi, anche quando l'arbitro non si dimostra all'altezza della situazione.
All'inizio della mia esperienza da allenatore mi ero rivolto a una giacchetta nera troppo autoritaria dicendo con voce tagliente: "Lei si identifica con la divisa che indossa".
Il giovane arbitro aveva interrotto il gioco e mi aveva cacciato dal campo. La conseguenza furono sette giornate di squalifica.
Quindi è meglio che me la prenda con la rete metallica, che non reagisce per nulla.
Purtroppo lo stress mi porta a richiamare in modo isterico i miei giocatori, quando sbagliano una giocata o non si attengono alle mie disposizioni. I ragazzi comprendono i miei stati d'animo e soffrono per le tante battaglie perdute, ma il loro impegno non viene mai meno.
continua
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