Marco è il giocatore per il quale stravedo, ma il ragazzo ha un caratterino mica male. Dal lato tecnico è il migliore della compagnia e quando subisce un fallo reagisce immediatamente con parole astiose, che indispongono gli avversari, ma soprattutto l'arbitro.
Per Marco non è raro vedersi sventolare davanti al naso il cartellino giallo ed alcune volte addirittura quello rosso. Così, anziché essere l'arma in più, diventa una palla al piede per la squadra, costretta a giocare in inferiorità numerica contro avversari più forti. Quando ha le lune poi, si intestardisce in dribbling prolungati, il cui unico risultato è farsi sottrarre la palla dagli avversari. Allora mi imbestialisco e una volta, negli spogliatoi durante l'intervallo, poco mancò che lo prendessi a schiaffi. Divisi solo dal tavolo dei massaggi, perdemmo entrambi il lume della ragione. Fortunatamente intervennero Andrea, il capitano, e Loris a calmare i nostri animi esacerbati.
Siamo come due amanti delusi, che cercano di ferirsi in tutti i modi, ma l'uno soffre alle sofferenze dell'altro. Io mi sento tradito da Marco e lo rimprovero dicendogli: "I migliori devono essere un esempio per gli altri".
Il ragazzo risponde immancabilmente: "Tu ce l'hai con me", ma sa che non è vero.
Negli anni che seguiranno, quando non sarò più il suo allenatore, ci saluteremo sempre con molta cordialità quando ci incontreremo, e, se non mi accorgerò della sua presenza, sarà lui a richiamare la mia attenzione.
Un lato maggiore del campo dall'allenamento all'oratorio di Trescore confina con una via che conduce in centro del paese. Solo un muro alto non più di due metri fa da barriera ai palloni che danzano nell'aria. Spesso è necessario salirvi sopra per chiedere ad un passante di ributtare in campo il pallone caduto nella via.
Una sera d'autunno, durante la partitella di fine allenamento, la palla, colpita in modo maldestro, vola al di là del muro.
Loris sale sul muro e vede arrivare un'automobile. Il conducente ferma l'automezzo in mezzo alla via, scende, raccoglie il pallone e lo butta nel baule e sgomma via. Loris, esterrefatto, scende e racconta l'accaduto a tutta la compagnia, che attendeva per riprendere il gioco.
"Chi era?" chiedo.
"Era Giovanni" risponde il ragazzo.
"Riprendiamo il gioco con un altro pallone" sollecito. "Andrò a recuperarlo al mio ritorno a Zandobbio".
Finito l'allenamento, io e Loris ritorniamo al paese e ci rechiamo a casa di Giovanni e vediamo il pallone sul balcone del primo piano. Suoniamo il campanello ed ecco apparire il padre.
"Ciao, Sergio. Cosa c'è?".
"Sono venuto a recuperare quel pallone" rispondo, indicando con la mano la sfera di cuoio e, sorridendo, gli racconto l'accaduto.
"E' arrivato mezz'ora fa a tutta velocità, ha buttato il pallone sul balcone ed è ripartito senza darmi una spiegazione" si giustifica il pover'uomo e va a prendere il pallone.
"Niente di grave" lo rincuoro, congedandoci.
A casa, seduti a tavola per la cena, abbiamo commentato il fatto. Ebbene, Giovanni, il ragazzo difficile che alcuni anni prima si era presentato sul campo di allenamento in pigiama, ne ha fatta di strada tortuosa. L'ultimo tratto lo ha condotto alla droga.
Fortunatamente pochi mesi dopo il piccolo furto ha accettato di entrare in una comunità.
Il dirigente accompagnatore della squadra è Pierangelo, papà di Andrea e Marco.
Uomo di carattere mite, sui vent'anni ha dovuto abbandonare il calcio per un infortunio al ginocchio. A quell'epoca era un giocatore molto promettente, lanciato verso il professionismo, ma il guaio gli tarpò le ali e dovette adattarsi a fare l'operaio.
In panchina Pierangelo soffre come me, ma trattiene dentro i sentimenti che prova. Qualche volta si sfoga con una garbata protesta per una decisione arbitrale, ma l'uomo in nero qualche volta gli indica la via degli spogliatoi. Il brav'uomo scuote la testa e rassegnato esce dal campo.
Tra me e lui si è instaurato un legame di stima, che va oltre il calcio. Non di rado parliamo delle nostre famiglie, scoprendo molti lati in comune. Rosaria e Fulvia, la moglie di Pierangelo, discorrono come due vecchie amiche, quando si incontrano sulle tribune per assistere alle partite.
Pierangelo capisce la mia sofferenza in panchina, provando lui stesso un senso di frustrazione di fronte alle difficoltà che i ragazzi incontrano contro avversari più forti.
Eppure ammira la mia volontà di non arrendermi, che, smaltita l'amarezza della sconfitta, mi ripresento il martedì sera sul campo di allenamento con il sorriso sulle labbra, pronto a rincuorare i ragazzi avviliti.
continua