FONTE: avvisi settimanali della Parrocchia di Cene.
ANORESSIA (raccontata in diretta)
Tutto era partito da una semplice parola: troppo. Ero sempre stata una ragazza sovrappeso, una di quelle che alle medie veniva presa di mira con frasi del tipo "Sicura che ci passi?", o "Guarda che non ti regge" e le conseguenti risate di derisione da parte di chi c'era intorno.
Ero troppo, me ne rendevo conto, ma non era il problema principale, ero più giovane e avevo altri pensieri per la testa, di certo una ragazza di dodici anni, almeno all'epoca, non avrebbe mai pensato al proprio aspetto.
La prima volta che questa parola mi creò dei veri e propri problemi fu in prima superiore. All'epoca giocavo a pallavolo, era un periodo in cui ero isolata dagli amici e in cui ero completamente buttata sullo sport e lo studio, non c'era altro per me. La solita visita sportiva, quella annuale, fu un duro colpo: "Se non perdi peso non ti do il permesso di continuare l'attività."
Una coltellata, ecco cosa ricevetti quel giorno, un colpo che mi portò a fare cose che prima di allora non erano nemmeno mai passate per la mia testa. Pranzavo a scuola, questo fu il primo "aiuto" che mi portò sul problema. I pomeriggi erano tanti durante la settimana e di certo i miei compagni non tenevano d'occhio me, la ragazza sovrappeso alla quale non avrebbe fatto di certo male qualche pasto in meno. Buttavo il cibo nella spazzatura della scuola senza rendermi conto di ciò che facevo, mi dicevo che in questo modo avrei sicuramente perso quei chili di troppo che erano diventati un ostacolo. Nel giro di un mese ne persi dieci e al loro posto giunsero i primi problemi: non riuscivo più a reggermi sulle mie gambe, il calo era stato tanto rapido da togliermi le forze (che in un primo momento sembravano essere aumentate); avevo continui capogiri e mal di testa che mi impedivano di compiere ciò che per me era abitudine; lo sport era diventato un problema, gli allenamenti mi sfiancavano e gli svenimenti erano diventati ormai normali. Non ero sottopeso e non avevo raggiunto un peso stabile, ma, una volta ricoverata in ospedale, dovetti bloccarmi, soprattutto messa al corrente dei pericoli che mi avrebbe procurato la strada che stavo per imboccare.
Gli anni a seguire non furono semplici: furono alternati da abbuffate, dovute soprattutto dallo stress procurato dalla scuola e da problemi personali, e restrizioni, sulle quali però ero tenuta d'occhio.
L'apice avvenne un anno fa, due anni dopo aver finito le superiori: il lavoro, come tuttora, pareva introvabile e, obbligata da mia madre, non potevo iniziare il corso di studi che volevo. Cosa fare? Mi misi a fare volontariato, ma più di questo? Mi sentivo inutile e del tutto immobile in confronto al mondo che intorno a me continuava a girare. Io, la ragazza grassa, dovevo dare una svolta alla mia vita, e qual'era l'unica cosa che potevo decidere da cosa? Che potevo gestire?
Trovandomi davanti allo specchio presi la mia decisione: ci voleva una dieta e tanto, tantissimo sport.
Mi misi a correre, avevo lasciato la pallavolo in terza superiore a causa degli studi, e a limitare il cibo: dovevo evitare ogni sorta di grasso, mettere un freno ai dolci, saltare ogni sorta di spuntino e farmi bastare i tre pasti principali (se possibile evitando anche quelli). Insomma, mi ero di nuovo complicata la vita, ma questa volta ero grande, nessuno aveva fatto a tempo ad accorgersene.
Quel numero sulla bilancia continuava ad abbassarsi: prima di dieci chili, poi di venti, fino ad arrivare ai trenta. Eppure il riflesso nello specchio non cambiava. Perché continuavo ad essere grassa? Perché il mio corpo continuava ad essere "troppo"?
I complimenti giunsero al più presto da pareri esterni "Come stai bene ora!", "Sei dimagrita? Brava, continua così!", "Stai decisamente meglio", e da un certo punto di vista non potevo che essere fiera di me stessa: gli altri vedevano ciò che io non percepivo, questo voleva dire che stavo riuscendo nel mio intento. Eppure non bastava, mai sarebbe bastato.
I miei genitori furono i primi ad accorgersene e a chiedermi di smetterla "Vai bene così", dicevano e io non potevo che prendere le loro parole per una scusa, loro non erano gli altri.
I primi segni all'erta, però, raggiunsero anche me. Il fiato, nonostante fossi allenata, veniva meno e quei dannati capogiri non mi lasciavano in pace. Nel mentre avevo anche iniziato a seguire dei corsi in università e la concentrazione pareva avermi abbandonata. Piangevo, lo facevo continuamente.
C'era qualcosa che non andava.
Mi convinsero a contattare un centro per disturbi alimentari, cosa che in un primo momento avevo preso sul ridere, ma, una volta resami conto della gravità della situazione, non potei che afferrare la mano che mi era stata tesa.
Feci varie visite riguardanti sia l'ambito psicologico che quello fisico e mi venne diagnosticato il NAS, un disturbo alimentare.
In un primo momento mi limitai a varie visite ambulatoriali per tenere sotto controllo il problema ma, non notando miglioramenti, i dottori iniziarono a consigliarmi il ricovero. Non volevo, finalmente avevo iniziato la mia università e avevo l'occasione di seguire i corsi, cosa che un ricovero in ospedale non mi avrebbe permesso di fare. Dicevo di continuare con le visite, che sarebbero bastate, ma, nella mia mente malata, anche io avevo capito che dovevo fare un passo avanti. Si optò per un day hospital, entravo alle nove di mattina per uscire alle nove di sera, dal lunedì al venerdì. Il sabato, avendo l'università, avevo il permesso di frequentare le lezioni, mentre durante la settimana mi fu concesso solo successivamente. Dovevano tenermi d'occhio durante i pasti e anche le ore di studio erano limitate. Dovevamo stare sedute, i movimenti volevano dire compensazione, trovare qualcosa che occupasse la nostra mente. Ora come ora devo ammetterlo, quei giorni, seppur difficili, mi sono stati di grande aiuto.
Rimasi in ospedale per ben quattro mesi, al termine dei quali fui letteralmente buttata nella realtà, ora, comunque seguita dagli esperti una volta alla settimana, dovevo gestire "da sola" i pasti, preparati esclusivamente da mia madre. Nessun educatore mi teneva, e mi tiene, d'occhio. La responsabilità era, ed è, mia.
Non sono guarita, probabilmente non lo sarò nemmeno tanto presto, mi sono limitata a scrivere queste righe per mettere in guardia le ragazze, e anche i ragazzi.
Diamine! Buttate via quella dannatissima bilancia e lasciate perdere ciò che vedete nello specchio. Non capite, e credo non lo capirete mai, a cosa può portare la bassa autostima di voi stessi. Non dico che siete perfetti, nessuno a questo mondo lo è, ma siete unici ed è proprio questa diversità a rendervi tanto belli!
Soltanto ai miei, ormai quasi ventitré, anni di vita sono riuscita a raggiungere questa filosofia, pensiero che su di me, a causa della malattia, non riesco a mettere in atto, ma so che con la forza di volontà mi porterà a stare bene.
I disturbi alimentari, ragazzi, sono un oblio profondo, una muraglia che difficilmente si riesce a scalare e che vi isola da coloro ai quali volete bene. Fate gli sbagli della vostra età, ma non permettete alla vostra mente, ma soprattutto al prossimo, di farvi raggiungere il fondo in questo modo. Si fa fatica e sono tanti gli errori che si commettono. Ora anche solo qualche etto in più è una vittoria per me, una vittoria sofferta nel mio cuore.
Continuo ad essere quel "troppo" che mi ha ridotta in questo modo. Voi non lo siete. Fidatevi.
Maria
Mi misi a correre, avevo lasciato la pallavolo in terza superiore a causa degli studi, e a limitare il cibo: dovevo evitare ogni sorta di grasso, mettere un freno ai dolci, saltare ogni sorta di spuntino e farmi bastare i tre pasti principali (se possibile evitando anche quelli). Insomma, mi ero di nuovo complicata la vita, ma questa volta ero grande, nessuno aveva fatto a tempo ad accorgersene.
Quel numero sulla bilancia continuava ad abbassarsi: prima di dieci chili, poi di venti, fino ad arrivare ai trenta. Eppure il riflesso nello specchio non cambiava. Perché continuavo ad essere grassa? Perché il mio corpo continuava ad essere "troppo"?
I complimenti giunsero al più presto da pareri esterni "Come stai bene ora!", "Sei dimagrita? Brava, continua così!", "Stai decisamente meglio", e da un certo punto di vista non potevo che essere fiera di me stessa: gli altri vedevano ciò che io non percepivo, questo voleva dire che stavo riuscendo nel mio intento. Eppure non bastava, mai sarebbe bastato.
I miei genitori furono i primi ad accorgersene e a chiedermi di smetterla "Vai bene così", dicevano e io non potevo che prendere le loro parole per una scusa, loro non erano gli altri.
I primi segni all'erta, però, raggiunsero anche me. Il fiato, nonostante fossi allenata, veniva meno e quei dannati capogiri non mi lasciavano in pace. Nel mentre avevo anche iniziato a seguire dei corsi in università e la concentrazione pareva avermi abbandonata. Piangevo, lo facevo continuamente.
C'era qualcosa che non andava.
Mi convinsero a contattare un centro per disturbi alimentari, cosa che in un primo momento avevo preso sul ridere, ma, una volta resami conto della gravità della situazione, non potei che afferrare la mano che mi era stata tesa.
Feci varie visite riguardanti sia l'ambito psicologico che quello fisico e mi venne diagnosticato il NAS, un disturbo alimentare.
In un primo momento mi limitai a varie visite ambulatoriali per tenere sotto controllo il problema ma, non notando miglioramenti, i dottori iniziarono a consigliarmi il ricovero. Non volevo, finalmente avevo iniziato la mia università e avevo l'occasione di seguire i corsi, cosa che un ricovero in ospedale non mi avrebbe permesso di fare. Dicevo di continuare con le visite, che sarebbero bastate, ma, nella mia mente malata, anche io avevo capito che dovevo fare un passo avanti. Si optò per un day hospital, entravo alle nove di mattina per uscire alle nove di sera, dal lunedì al venerdì. Il sabato, avendo l'università, avevo il permesso di frequentare le lezioni, mentre durante la settimana mi fu concesso solo successivamente. Dovevano tenermi d'occhio durante i pasti e anche le ore di studio erano limitate. Dovevamo stare sedute, i movimenti volevano dire compensazione, trovare qualcosa che occupasse la nostra mente. Ora come ora devo ammetterlo, quei giorni, seppur difficili, mi sono stati di grande aiuto.
Rimasi in ospedale per ben quattro mesi, al termine dei quali fui letteralmente buttata nella realtà, ora, comunque seguita dagli esperti una volta alla settimana, dovevo gestire "da sola" i pasti, preparati esclusivamente da mia madre. Nessun educatore mi teneva, e mi tiene, d'occhio. La responsabilità era, ed è, mia.
Non sono guarita, probabilmente non lo sarò nemmeno tanto presto, mi sono limitata a scrivere queste righe per mettere in guardia le ragazze, e anche i ragazzi.
Diamine! Buttate via quella dannatissima bilancia e lasciate perdere ciò che vedete nello specchio. Non capite, e credo non lo capirete mai, a cosa può portare la bassa autostima di voi stessi. Non dico che siete perfetti, nessuno a questo mondo lo è, ma siete unici ed è proprio questa diversità a rendervi tanto belli!
Soltanto ai miei, ormai quasi ventitré, anni di vita sono riuscita a raggiungere questa filosofia, pensiero che su di me, a causa della malattia, non riesco a mettere in atto, ma so che con la forza di volontà mi porterà a stare bene.
I disturbi alimentari, ragazzi, sono un oblio profondo, una muraglia che difficilmente si riesce a scalare e che vi isola da coloro ai quali volete bene. Fate gli sbagli della vostra età, ma non permettete alla vostra mente, ma soprattutto al prossimo, di farvi raggiungere il fondo in questo modo. Si fa fatica e sono tanti gli errori che si commettono. Ora anche solo qualche etto in più è una vittoria per me, una vittoria sofferta nel mio cuore.
Continuo ad essere quel "troppo" che mi ha ridotta in questo modo. Voi non lo siete. Fidatevi.
Maria
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