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FONTE: "Messaggero di sant'Antonio" settembre 2022.
Articolo: "Antidepressivi sotto la lente" di ROBERTA VILLA.
Circa 3 milioni di italiani soffrono di depressione nelle sue diverse forme. Secondo lo studio Passi dell'Istituto superiore di sanità, escludendo adolescenti e anziani, circa il 6 per cento degli adulti tra i 18 e i 69 anni, nel nostro Paese, riferisce sintomi riconducibili al disturbo dell'umore tali da compromettere la propria qualità di vita.
Alcuni hanno trovato sollievo nei farmaci o nella psicoterapia, altri ancora oggi esitano a farsi curare o anche solo ad ammettere che il proprio malessere psicologico ha caratteristiche diverse, per intensità e durata, dalla tristezza che può prendere in una uggiosa giornata autunnale, davanti alle cattive notizie o in seguito a lutti, disgrazie, separazioni o licenziamenti.
Cambiare umore in relazione a questi eventi è non solo normale, ma segno di un corretto funzionamento della nostra psiche. Si entra in un campo patologico solo quando il disagio si prolunga o si associa per più di due settimane a una serie di altri sintomi (alterazioni dell'appetito o del sonno, perdita di piacere per attività prima considerate gratificanti, sensi di colpa o di inadeguatezza, fatica, rallentamento dei movimenti, fino ai pensieri o ai tentativi di suicidio). Per questo la depressione clinica è una malattia invalidante e potenzialmente letale, che è importante riconoscere e curare. Ma come?
EFFICACIA IN DUBBIO
Nelle scorse settimane si è riaccesa la discussione sugli psicofarmaci che, secondo alcuni, sono prescritti con troppa leggerezza , mentre per altri non vengono dati a sufficienza; farmaci che qualcuno ancora rifiuta, mentre altri ne abusano.
Il dibattito è nato da una recente ricerca riguardante le cause stesse della depressione. Una teoria avanzata negli anni Sessanta del '900, e ancora condivisa da molti medici, sostiene che la malattia deriva dalla carenza nel cervello dei livelli di una sostanza detta serotonina, che andrebbe quindi ristabilita attraverso i farmaci.
Il lavoro pubblicato a luglio scorso sulla rivista "Molecolar Psychiatry", raccogliendo una corposa quantità di dati degli ultimi decenni, non ha invece trovato una conferma del rapporto tra questa sostanza e il disturbo mentale, mettendo così in dubbio anche l'utilità degli antidepressivi (in sigla SSRI e SNRI), che agiscono su questo bersaglio.
Da diverse parti si sono però sollevate voci preoccupate che la diffusione di questa notizia, potenzialmente importante dal punto di vista scientifico, abbia un grave effetto collaterale: spingere i pazienti a interrompere di loro iniziativa la cura, cosa che può portare a un aggravamento dei sintomi.
UNA CURA SU MISURA
D'altra parte, al di là del meccanismo d'azione, che dovrà essere approfondito, quel che interessa di più è sapere se questi farmaci svolgono il loro ruolo; in altre parole, se funzionano. E questo non si può appurare con il tipo di ricerche descritte nel lavoro citato, ma solo con un trial che metta a confronto pazienti curati con gli psicofarmaci ed altri che prendono sostanze inattive, cioè placebo.
Secondo l'analisi sistematica delle differenze di efficacia e tollerabilità di una ventina di antidepressivi pubblicata su "The Lancet" qualche anno fa, gli antidepressivi, pur senza risultati clamorosi, sarebbero in media comunque meglio del placebo. La variabilità di effetto da una persona all'altra potrebbe derivare dal fatto che sotto l'unico ombrello del termine "depressione" convivono probabilmente molte condizioni diverse, in cui i differenti possibili fattori causali, e di conseguenza le differenti terapie, hanno peso variabile: per qualcuno può essere più determinante la predisposizione genetica, per altri gli eventi stressanti o traumatizzanti della vita, variamente combinati. Anche le cure dovranno quindi essere adeguate al singolo. Chi trae vantaggio dalla cura con antidepressivi detti "inibitori della ricaptazione della serotonina" non deve pertanto assolutamente smettere di prenderli. Se ha dubbi, ne parli col suo medico.
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