giovedì 24 ottobre 2019

VIVERE INSIEME. Esiste un divieto di morire?


FONTE: "il venerdì di Repubblica" dell'11/10/19.
Articolo: "Finchè morte non ci separi. Ma come?" di MICHELE AINIS.


Esiste un divieto di morire? O c'è invece un diritto, dopo la sentenza  costituzionale sulla vicenda di Marco Cappato?
Domande che lì per lì suonano assurde, giacché prima o poi sorella morte bussa alla porta di ciascuno; quindi morire è un obbligo, non un divieto né un diritto.
Le leggi tuttavia si spingono fin negli angoli più intimi della nostra esistenza, regolandola come un orologio; e così disciplinano la nascita (per esempio con la normativa sull'aborto), e così dettano norme sulla morte. O altrimenti, quando il legislatore resta in silenzio, interviene un giudice, tracciando la linea di confine tra il lecito e l'illecito.
L'ha fatto, nel 2007, il gup (giudice dell'udienza preliminare) di Roma, rispetto al caso di Piergiorgio Welby, inchiodato ad un respiratore automatico però lucido nel desiderio di morire; fu infine accontentato da un anestesista, che per l'appunto il gup prosciolse non ravvisando nella sua condotta alcun reato.
L'ha fatto, nel 2008, la Cassazione, rispetto al caso di Eluana Englaro: una donna in stato vegetativo da 17 anni, alla quale venne infine interrotta la nutrizione artificiale, accogliendo la richiesta di suo padre.
E infine l'ha fatto, a settembre, la Consulta, rispetto al caso di Fabiano Antoniani: cieco e tetraplegico, scelse il suicidio assistito in una clinica svizzera con l'aiuto di Cappato, che difatti ringraziò con le sue ultime parole. Reato punito dall'articolo 580 del codice penale (da 2 a 12 anni di galera), ma la Corte costituzionale ha dichiarato che il suicidio assistito non è sempre un reato, dipende dalle circostanze, dalle concrete condizioni del malato.
Succede spesso che un tribunale sostituisca il Parlamento. E in Italia succede più che altrove.
Per esempio circa il diritto alla privacy, garantito dalla giurisprudenza fin dal 1975, con 21 anni di anticipo rispetto alla legge approvata dalle Camere.
O circa la tutela del convivente more uxorio, che le nostre Corti offrono dal 1988, mentre la legge sulle coppie di fatto s'è fatta attendere per altri 28 anni.
O circa la stepchild adoption, riconosciuta dal tribunale per i minorenni di Roma nel 2014, pur in assenza di ogni legge.
Succede perché il Parlamento italiano è sempre un po' distratto rispetto ai temi etici; oppure perché i partiti ripetono l'eterna guerra fra guelfi e ghibellini, senza mai riuscire a mettersi d'accordo. E la vicenda che in ultimo ha deciso la Consulta ne offre una riprova.
Con l'ordinanza n. 207 del 2018, quest'ultima aveva concesso alle assemblee parlamentari un anno di tempo per risolvere il problema: invano. Sicché la Corte costituzionale ha provveduto a ridisegnare l'aiuto al suicidio, lasciando sopravvivere però dubbi e problemi che soltanto una disciplina organica, scritta nero su bianco in una legge, potrebbe cancellare.
Come accertare la volontà del paziente? Quale ruolo per i comitati etici? Quanto tempo dovrà intercorrere prima che la richiesta di suicidio  venga in concreto soddisfatta? E ai medici, verrà garantita l'obiezione di coscienza?
Domande che si sovrappongono a domande, giacché c'è una grande confusione sulle diverse situazioni concernenti il fine vita, nonché sul loro trattamento giuridico, di volta in volta libero, permesso a certe condizioni, oppure vietato con tutti i crismi del diritto. Proviamo allora a mettere un po' di ordine.
La sedazione profonda. Se il paziente in fase terminale la richiede, il medico dovrà somministrarla: così l'articolo 2 della legge n. 219 del 2017, che assicura altresì un'adeguata terapia del dolore. In pratica, il malato viene fatto scivolare in uno stato d'incoscienza finché non ne sopraggiunga la morte, che tuttavia dev'essere prevista a breve, nell'arco di due settimane.
La desistenza terapeutica. Ossia l'opposto dell'accanimento terapeutico, che consiste in trattamenti inutili o sproporzionati, e perciò vietati - anche in questo caso - dalla legge approvata due anni fa dal Parlamento. Ma già nel 2010 una ricerca dell'Istituto Mario Negri mostrò come il 62% dei medici italiani respinga le cure aggressive sui malati terminali.
Il rifiuto dei trattamenti di sostegno. Anch'esso garantito dalla legge n. 219, attraverso lo strumento delle Dat (disposizioni anticipate di trattamenti), una sorta di testamento biologico che ciascuno può redigere. E se il malato è ormai incosciente? Se non ha messo per iscritto la propria volontà? Quest'ultima può sempre desumersi dalla testimonianza dei suoi conoscenti, come stabilì la Cassazione decidendo il caso Englaro.
Il suicidio assistito. Rimane un crimine, però adesso la Consulta lo ha dichiarato non punibile ove ricorrano quattro condizioni. In sintesi: se chi vuol porre fine alla propria esistenza, e chiede aiuto perché non può farcela da solo, sia affetto da una patologia irreversibile; soffra di tormenti insopportabili; sopravviva unicamente attraverso trattamenti di sostegno vitali; sia comunque in grado di decidere liberamente del proprio destino.
L'eutanasia. Nel linguaggio del codice penale, si chiama "omicidio del consenziente": fino a 15 anni di pena detentiva. La differenza con la categoria precedente sta nella persona che esegue l'ultima azione: nel caso del suicidio assistito è il paziente, cui tocca comunque un ruolo attivo; nel caso dell'eutanasia è sempre qualcun altro, generalmente un medico. Così avviene difatti nei Paesi che consentono le pratiche eutanasiche, a partire dall'Olanda, che le autorizzò per prima nel 2001. In Italia, viceversa, nel 2013 l'Associazione Coscioni raccolse  130 mila firme su una proposta di legge popolare, ma il Parlamento non l'ha mai discussa.
Non importa, prima o poi provvederà qualche tribunale. Alle nostre latitudini funziona così.


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