FRANCESCA E GRETA RACCONTANO LA LORO ESPERIENZA MISSIONARIA IN BANGLADESH.
Il sorriso dell'ingiustizia
La prima volta che andammo a Kumullo fu un mercoledì pomeriggio. Eravamo atterrate a Dhaka (capitale del Bangladesh) da meno di una settimana e da tre giorni ci eravamo trasferite nella missione di Bompara, più a nord, a pochi kilometri dal confine con l'India. Sebbene fosse passato così poco tempo, l'Italia era già un ricordo lontano: fin da subito ci eravamo ben adattate a questo nuovo ambiente e la vicinanza della nostra compagna di viaggio Michela aveva presto dato vita a una forte amicizia. Era da un paio di giorni che sister Gianfranca, da noi affettuosamente soprannominata "Gianfri", ci parlava di una serie di villaggi non molto distanti dalla missione di Bompara, finché, mercoledì 6 agosto, giunse per noi l'occasione di visitarne uno. Quel giorno, come ogni giorno all'ora di pranzo, chiedemmo a Gianfri quale attività avrebbe occupato il nostro pomeriggio e la risposta ci rese particolarmente contente: "Oggi andremo in uno dei villaggi: Kumullo". Di quel luogo sapevamo molto poco: era un villaggio di capanne, così ci era stato riferito, costruito nella foresta e popolato da un considerevole numero di bambini dalle età più svariate. Le suore ci avevano raccontato di come i bambini erano stati contenti nell'accogliere la visita delle ultime ragazze "bianche" che erano andati a trovarli: queste avevano organizzato dei giochi e della semplice animazione per divertire i piccoli abitanti del villaggio e ciò era stato molto apprezzato. Ora toccava a noi: nel pomeriggio saremmo andate a far visita a Kumullo per ambientarci e per far conoscenza dei suoi abitanti. In seguito, saremmo tornate più volte ad animare le mattine dei bambini con giochi e balletti da noi inventati.
Nel primo pomeriggio, dunque, salimmo su un "ven", uno dei mezzi di trasporto più comuni in Bangladesh, e, una volta uscite dalla strada asfaltata, imboccammo un sentiero all'interno della foresta. Mentre Gianfri discorreva allegramente con il nostro "autista", noi ci guardavamo attorno incantate dalla natura rigogliosa e dalla tranquillità che ivi regnava. Fu un viaggio breve e, dopo una ventina di minuti, il carretto si fermò: eravamo arrivate. Davanti a noi vi era un laghetto dall'acqua color verde in cui tre bimbi tra i 7 e i 10 anni stavano rumorosamente facendo il bagno, spruzzandosi acqua a vicenda e ridendo divertiti, mentre una bambina non più grande di loro li osservava teneramente dalla sponda, tenendo in braccio un altro bimbo, forse il fratellino minore.
Fin da subito un'atmosfera di allegria e spensieratezza ci circondò: due dei bambini uscirono dall'acqua e ci vennero incontro, mentre l'altro si allontanò correndo, come a dare la notizia del nostro arrivo al resto del villaggio. Gianfri ci invitò a proseguire e ci condusse all'interno del villaggio che si ergeva poco dopo lo stagno.
La realtà si dimostrò molto simile a ciò che avevamo immaginato: le abitazioni altro non erano che capanne costruite con canne di bambù e sterco di mucca essiccato, costituite da una sola stanza che era contemporaneamente cucina, camera da letto e spesso anche stalla. L'unica costruzione in muratura era la semplicissima chiesa, usata anche come luogo di riunione e di gioco/catechesi per i bambini. Era proprio vero, inoltre, che quello era un villaggio popolato prevalentemente da bambini: ad ogni angolo che svoltavamo ne spuntavano di nuovi ed ognuno, senza pensarci due volte, si univa allo sciame che si era subito creato al nostro seguito e che ci seguiva per le strette viuzze del villaggio, mentre Gianfri ci conduceva alla visita dello stesso. I bimbi ci chiamavano "sisters" e ci guardavano con meraviglia, ci toccavano le braccia ed i capelli così chiari rispetto ai loro, addirittura litigavano per decidere chi potesse prenderci per mano ed accompagnarci: di fatto, però, nessuno era disposto ad arrendersi e dovemmo in fretta abituarci a camminare con quattro bambini attaccati a dita, mano, polso e braccio a destra ed altrettanti a sinistra! Terminato il giro del villaggio, Gianfri, la vera e unica "sister" tra noi quattro, decise che era giunto il momento di tornare alla missione per il momento serale di preghiera e così facemmo. I bambini si erano tuttavia già affezionati a noi e ci lasciarono andare a malincuore: ci accompagnarono fino alla strada dove arrivò un altro ven e lì ci fecero promettere che saremmo tornate ancora. "Abarajben" ("Torna ancora") ci sussurravano all'orecchio e noi, piene di gioia di fronte a tutto quell'amore dimostratoci, rispondevamo: "Abarajbo" ("Tornerò").
Nei giorni seguenti, tra le varie attività che riempivano le nostre giornate, cercammo di ritagliarci del tempo per inventare giochi adatti ai bambini che avevamo incontrato e alle poche risorse di cui disponevamo. Fortunatamente Gianfri trovò in qualche ripostiglio della missione dei colori per la pelle, con i quali ci divertimmo poi a dipingere i volti dei nostri piccoli amici.
Tornammo a Kumullo due volte, entrambe di domenica mattina. La partenza dalla missione era fissata per le 6 per arrivare a Kumullo alle 6.30 circa, fare il giro delle capanne a raccogliere tutti i bimbi che, ancora mezzi addormentati, ci prendevamo per mano e si lasciavano condurre fino alla chiesa. Qui aspettavamo tutti insieme l'inizio della celebrazione eucaristica e, al termine di questa, dopo che le ragazze più grandi ci avevano offerto in omaggio dei fiori locali, come la tradizione vuole che si faccia con l'ospite, iniziavano i giochi. Ricordare quelle mattine ci riempie il cuore di gioia: è indescrivibile l'emozione che provavamo nel vedere come questi bambini si divertissero, come ridessero di gusto, come i loro occhi fossero pieni di affetto per noi, tre ragazze sconosciute giunte quasi per caso in quel villaggio sperduto. Quando eravamo con i bambini eravamo felici e continuamente prese da uno di loro che reclamava un po' della nostra attenzione: le ore passavano in fretta e, senza che ce ne rendessimo conto, si erano già fatte le 12 e, stanche e sudate, dovevamo salutare i bambini per tornare a "casa". Quando la sera, tuttavia, ripensavamo alla giornata trascorsa, una certa malinconia mista a un senso di colpa sorgeva in noi. Quel gregge di bambini ci faceva sentire delle eroine e, riflettendoci, era inevitabile il sorgere di certe domande: come potevamo noi, nate e vissute nello sfarzo e nello spreco, essere viste come eroine da quei bambini? Noi ci sentivamo piccole ed egoiste di fronte alla povertà e alla semplicità di questa gente e l'unico modo che avevamo per restituire anche solo una minima parte di quello che avevamo ricevuto era quello di donare un sorriso a questi bambini facendoli giocare...ma nel far ciò non facevamo nulla di così eccezionale da spiegare l'ammirazione e il rispetto che percepivamo negli occhi di chi ci guardava. Questi tristi sentimenti si accentuarono soprattutto dopo l'ultima visita a Kumullo, al termine della quale, come ogni volta, i bambini ci accompagnarono alla strada mano nella mano e, una volta arrivati, ci abbracciarono e ci baciarono. Fu commovente vedere i bambini un po' più grandi tendere le braccia verso le nostre teste per farci abbassare alla loro altezza e sussurrarci ancora una volta all'orecchio "Abarajben". Torna ancora. Quella domenica mattina, tuttavia, sapevamo che non saremmo più potuto tornare: il giorno seguente saremmo partite per tornare a Dhaka da dove, due giorni dopo, avremmo preso il volo per l'Italia. Fu così che quel giorno, a differenza delle volte precedenti, non potemmo promettere ai nostri piccoli amici che saremmo tornate. I bambini si sorpresero nel vedere che non rispondevamo nulla alla loro richiesta: alcuni pensarono che non avessimo capito e ce la ripeterono più volte. Torna ancora. Torna ancora. Torna ancora. Quelli più grandi probabilmente capirono e non aggiunsero altro. Qualcuno ci baciò sulla fronte. Noi non potemmo fare altro che guardare negli occhi questi bambini, ricambiare i loro baci in fronte e stringerli forte, consapevoli che si trattava di un addio. Arrivò il ven che ci avrebbe riportato alla missione e, a malincuore, vi salimmo. I bambini rimasero in piedi in fondo alla strada a fissarci, alcuni un po' confusi, alcuni consapevoli ed altri no, mentre noi ci allontanavamo sempre più. Nelle nostre teste risuonavano però quei sussurri: "Torna ancora. Torna ancora. Torna ancora". In quel momento avremmo certamente dato tutto per poter rispondere loro "Abarajbo", "Tornerò". Eppure sapevamo che non sarebbe stato così, sapevamo che nel giro di pochi giorni avremmo ripreso la vita di sempre. Saremmo tornate a vivere in mezzo a tante cose futili, avremmo cominciato l'università e saremmo state proiettate in un nuovo mondo. "Noi abbiamo un gran futuro davanti" pensavamo, "abbiamo tanti sogni e abbiamo la possibilità di realizzare la maggior parte, se non la totalità di essi. E' solo questione di giocare bene le nostre carte. E loro?" I bambini di Kumullo non andranno mai all'università e non potranno permettersi i sogni che ci permettiamo noi. Forse non vedranno mai la capitale del proprio paese, forse fra qualche anno cominceranno a lavorare nei campi che sorgono sempre più numerosi là dove la foresta viene abbattuta e, come i loro padri e i padri di questi prima ancora, non compreranno mai un terreno da gestire in proprio perché non conoscono, per cultura, il concetto di "proprietà". Preferiranno lavorare per tutta la vita nel campo di qualcun altro in cambio di un salario bassissimo, che gira intorno ai 30 euro mensili e forse meno. Noi, nel frattempo, saremo in una casa di cemento e mattoni e con un tetto in tegole. Se avremo freddo ci compreremo un maglione e accenderemo il caminetto, se avremo caldo potremo bere dell'acqua fresca conservata in frigorifero. Qualunque strada prenderemo staremo sicuramente meglio di loro: siamo e saremo così fortunate di poterci addirittura permettere di fare volontariato.
Quella domenica mattina, mentre ci allontanavamo da Kumullo, non potemmo fare altro che tacere e sentire il cuore contorcersi nel petto di fronte all'immagine palese di un mondo ingiusto. Davanti ai nostri occhi vi erano a confronto la nostra ricchezza e la povertà di quella gente, la nostra fortuna e la loro sfortuna, entrambe frutto non di un merito o di una colpa, bensì di un'ingiusta combinazione del fato. Come non provare rabbia e tristezza pensando a tutto ciò? Eppure i bambini di Kumullo sorridevano, sorridevano sempre.